lavoroprevidenza

domenica 2 gennaio 2005

PARI OPPORTUNITA : PARI OPPORTUNITA’: MINI RASSEGNA GIURISPRUDENZIALE

dell Avv. Rocchina Staiano-Vicedirettore di LavoroPrevidenza.com e Responsabile unica della sezione pari Opportunità di LavoroPrevidenza.com



1. Principio di uguaglianza
I. In base ai principi affermati dalla l. 10 aprile 1991 n. 125 sull eguaglianza degli uomini e delle donne nell’accesso al lavoro, i Convitti nazionali, che devono accogliere le domande di iscrizione al semiconvitto anche delle donne, devono prevedere posti distinti per gli istitutori e per le istitutrici (Cons. Stato, sez. II, 29 settembre 1999 n. 388, in Riv. Giur. Scuola, 2002, 552).

II. Secondo l’art. 5 della direttiva comunitaria 9 febbraio 1976 n. 76/207/Cee del consiglio (che ha formato oggetto di interpretazione pregiudiziale della corte di giustizia, con la sentenza 25 luglio 1991 in causa n. 345/1989 -presente in causa, per intervento, il governo italiano- e che è sufficientemente precisa e incondizionata per poter essere invocata dai privati davanti alle giurisdizioni nazionali, una volta scaduto il termine concesso agli stati membri per adeguarsi alle sue prescrizioni), il principio di uguaglianza applicato alle condizioni di lavoro implica che vengano assicurate agli uomini e alle donne le stesse condizioni, senza alcuna discriminazione fondata sul sesso (senza, però, che la direttiva sia di ostacolo alla protezione della donna, specialmente per quanto riguarda la gravidanza e la maternità, come precisato dall art. 2, par. 3); conseguentemente è in contrasto con la citata direttiva, e come tale va disapplicata, la norma posta dall art. 5 l. 9 dicembre 1977 n. 903, che (sia pure con riferimento alle sole aziende manifatturiere anche artigianali e con talune conclusioni) enuncia un principio generale di esclusione delle donne dal lavoro notturno (Cass., sez. lav., 3 febbraio 1995 n. 1271, in Mass., 1995).


2. Licenziamento
I. E’ illegittimo il criterio di scelta della “pensionabilità”, in quanto, prevedendo o consentendo di fare riferimento per il personale femminile a un età inferiore a quella del personale maschile, viola il principio di parità di trattamento sancito dalla l. 10 aprile 1991 n. 125 (e ribadito specificamente dall art. 8 della l. 19 luglio 1993 n. 236 (Pret. Milano, 28 novembre 1996, in Riv. Crit. Diir. Lav., 1997, 377).

II. Deve ritenersi ricondotto al motivo discriminatorio in ragione del sesso il licenziamento di una lavoratrice allorché ci sia la prova per presunzioni di comportamenti molesti nei suoi confronti e manchino validi motivi del licenziamento. Infatti il regime della prova presuntiva, che è prova piena quando ricorrono i presupposti di cui all art. 2729 c.c. è stato adottato dal legislatore in tema di discriminazione sessuale, anche in caso di licenziamento che si basa su un tale motivo discriminatorio - art. 4, comma 5, l. n. 125 del 1991 - imponendo al datore di lavoro un inversione dell onere della prova, dato che la prova diretta della discriminazione sessuale, posta in essere con comportamenti molesti, difficilmente può raggiungersi se non con presunzioni sia perché non sempre il comportamento molesto viene perpetrato in modo percepibile da persone diverse dal destinatario, sia perché non è facile raccogliere una testimonianza diretta e precisa in quanto chi ha assistito a tali comportamenti spesso non è in grado di comprenderne la valenza negativa e contraria al diritto ed è perciò restio a riferire su di essi (Pretura Milano, 27 maggio 1996, in Orient. giur. lav. 1996, 654).

III. E’ inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell art. 1, 3º comma, L. 30 dicembre 1971 n. 1204, nella parte in cui non rende applicabile alle lavoratrici addette ai servizi domestici il divieto di licenziamento nel periodo compreso tra l inizio della gravidanza e il compimento di un anno di età del bambino, in riferimento agli artt. 3, 4, 29, 31, 35 e 37 Cost. (C. Cost., 15 marzo 1994 n. 86, in Foro It., 1994, I, 1318).

IV. Può ritenersi «offensivo» il licenziamento che, per la forma o le modalità del suo esercizio, per le conseguenze morali o sociali che ne derivino, per le espressioni contenute o richiamate nell atto di recesso, sia lesivo della personalità morale del lavoratore; tale licenziamento obbliga il datore di lavoro al risarcimento del danno in base al combinato disposto degli art. 41, 2º comma, cost., e 2043 c.c., essendo ravvisabile un danno-evento, derivante dalla semplice violazione della dignità umana e direttamente risarcibile prescindendo da un’effettiva diminuzione patrimoniale del soggetto leso o dall esistenza di un danno morale, rilevante solo nell ipotesi di reato (art. 2059 c.c.). Nel caso, la lavoratrice era stata licenziata, dopo la morte del figlio, per assenza ingiustificata (Pret. Ferrara, 25 novembre 1993, in Riv. It. Dir. Lav., 1994, II, 555).

V. Il licenziamento della lavoratrice intimato entro un anno dalla celebrazione del matrimonio e fuori dalle ipotesi previste dalle lett. a), b) e c), 2º comma, art. 3 l. n. 860/1950, non è nullo ma temporaneamente inefficace fino alla scadenza dell anno sicché alla lavoratrice spetta esclusivamente il risarcimento del danno nella misura delle retribuzioni mancanti (Pret. Milano, 18 novembre 1993, in Orient. Giur. Lav., 1994, 130).


3. Discriminazione indiretta
I. Costituisce discriminazione sessuale indiretta di natura collettiva nell ambito della progressione in carriera, la richiesta, ai fini del conseguimento della qualifica superiore al quarto livello (c.c.n.l. settore metalmeccanico), di un titolo di studio di scuola tecnica superiore, trattandosi di un requisito che, seppure di carattere formalmente neutro, è riferibile solo al personale di sesso maschile, ove non risulti dimostrata l’incidenza di tale requisito sulla capacità a svolgere le mansioni superiori. Nella specie, la società resistente non aveva mosso alcuna contestazione in ordine alle risultanze della prova statistica -fornita dalle ricorrenti ai sensi dell art. 4 comma 5 l. n. 125 del 1991- nè addotto alcuna prova al fine di dimostrare l insussistenza della discriminazione (Trib. Catania, 22 novembre 2000, in Foro It., 2001, I, 1778).

II. Il criterio adottato dall amministrazione -secondo cui “tra coloro i quali abbiano manifestato la propria disponibilità ad essere utilizzati in progetti per i lavori socialmente utili, nell’ambito della quota di fondo assegnata, le circoscrizioni provvederanno ad avviare i lavoratori, uomini e donne, in proporzione alle rispettive percentuali di disoccupazione”- rappresenta una forma di discriminazione indiretta, in quanto si traduce in un oggettivo pregiudizio per le lavoratrici di sesso femminile; esso, infatti, costituisce solo apparentemente un criterio neutrale ed egualitario, ma è sostanzialmente discriminante in quanto posseduto dalle donne in misura inferiore agli uomini. Nella maggior parte dei casi, soprattutto nei comuni del sud Italia, la percentuale degli iscritti nelle liste dei disoccupati è maggiore fra gli uomini che fra le donne (T.A.R. Calabria, sez. Reggio Calabria, 10 marzo 1999 n. 312, in Foro Amm., 1999, 1900).

III. Nel caso di specie, un’impresa addetta a un servizio di trasporto urbano o metropolitano ha indetto due procedimenti di selezione per mansioni di autista di linea: nel primo -previsto per la scelta di 50 conducenti da assumere con contratti di formazione e a tempo parziale- era richiesto al momento della presentazione della domanda il possesso della patente di abilitazione alla guida D o DE e il certificato di abilitazione professionale; nel secondo -promosso in vista della eventuale copertura dei posti di autista che sarebbero risultati vacanti nel futuro- non erano prescritti i medesimi titoli, che avrebbero dovuto essere documentati dal candidato solo al momento eventuale dell assunzione con contratto di formazione-lavoro. Il giudice ha ravvisato in questo caso una discriminazione indiretta nei confronti delle donne ex art. 4 l. n. 125 del 1991, in quanto, per un verso, i due avvisi di selezione erano differenziati per numero di posti, requisiti di ricevibilità della domanda e tempo di utilizzo delle graduatorie; per altro verso, i dati statistici mostravano che solo dove era stato consentito di poter conseguire il possesso della abilitazione alla guida D o DE e il certificato di abilitazione professionale al momento dell’assunzione, dopo lo svolgimento delle selezioni, il numero delle donne che sono riuscite a diventare “autiste di linea” è stato abbastanza rilevante. In base all art. 4, comma 5, l. n. 125 del 1991, la legge attribuisce alla prova statistica il valore di elemento presuntivo idoneo a individuare fattispecie di discriminazioni indirette e collettive in ragioni del sesso. A norma dell art. 15 l. n. 903 del 1977 i Consiglieri regionali di parità sono legittimati a denunciare atti di discriminazione di genere nell assunzione dei lavoratori: sono essi i principali promotori delle azioni positive volte alla realizzazione della parità uomo donna ex art. 1 l. n. 125 del 1991. Anche alle organizzazioni sindacali, a norma dell art. 15 l. n. 903 del 1977, è riconosciuta la facoltà di impugnare un provvedimento che si assuma diretto a violare il divieto legislativo di discriminazione fondata sul sesso in materia di accesso sul lavoro (Pret. Bologna, 27 giugno 1998, in Riv. Giur. Lav., 1999, II, 217).

IV. Affinchè possa realizzarsi una discriminazione indiretta, ai sensi dell art. 4 l. 10 aprile 991 n. 125, è necessaria la sussistenza di criteri che pregiudichino i lavoratori di uno dei due sessi e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento della prestazione lavorativa. Nella specie il giudicante ha escluso la ricorrenza di una tale discriminazione nell accesso alla categoria dirigenziale di una donna, in quanto il datore di lavoro aveva adottato criteri essenziali alla prestazione di lavoro del dirigente (Pret. Milano, 16 luglio 1994, in Giur. It., 1995, I, 2, 745).


4. Atti discriminatori
Costituisce discriminazione ai sensi dell art. 4 l. n. 223 del 1991e dell art. 1 l. n. 903 del 1977, sanzionabile ai sensi della procedura sommaria prevista dall art. 15 l. n. 903 del 1977, il comportamento del datore di lavoro che impedisce ad una lavoratrice in stato di gravidanza la frequenza a un corso di formazione esterna, non avente carattere pericoloso, faticoso o insalubre, adducendo quale motivazione dell esclusione il divieto di cui all art. 4 l. n. 1204 del 1971 (Trib. Teramo, 3 dicembre 1999, in Lav. Giur., 2000, 353).


5. Lavoro notturno
I. La norma nazionale che pone il divieto di lavoro notturno femminile (art. 5 l. n. 903 del 1977), in quanto contrastante con il principio comunitario di parità di trattamento fra lavoratori di sesso diverso introdotto dall art. 5 n. 2, della direttiva 76/207/Cee, deve essere disapplicata dal giudice penale, ferma restando l’applicazione del divieto assoluto per le lavoratrici madri, dall’accertamento della gravidanza fino al compimento di un anno di vita del bambino settimo mese per i fatti avvenuti prima dell entrata in vigore della l. n. 25 del 1999 (Cass., III sez. penale, 1 luglio 1999 n. 9983, in Foro It., 2000, II, 14).

II. La norma nazionale che pone il divieto di lavoro notturno femminile (art. 5 l. n. 903 del 1977), ancorchè contrastante con il principio comunitario di parità di trattamento fra lavoratori di sesso diverso introdotto dall art. 5 n. 2, della direttiva comunitaria n. 76/207/Cee, non può essere disapplicata dal giudice di merito in sede di risoluzione di una controversia fra le parti private del rapporto di lavoro (Cass., sez. lav., 20 novembre 1997 n. 11571, in Foro It. 1998, I, 444).

III. L art. 1 l. n. 903/1977, sulla parità uomo-donna in materia di lavoro, che vieta qualsiasi discriminazione fondata sul sesso nell accesso al lavoro, disciplina il momento costitutivo del rapporto, mentre l art. 5 della stessa legge, recante il divieto per l imprenditore di adibire il personale femminile a turni di lavoro notturni, presuppone già costituito il rapporto, con la conseguenza che le due disposizioni non presentano interferenze né incompatibilità, operando ciascuna in un ambito diverso: è pertanto illegittimo, nel caso di azienda strutturata con ritmi di lavoro implicanti necessariamente l inserimento dei dipendenti in turni notturni, il rifiuto del datore di lavoro di assumere personale femminile (Pret. Roma, 20 gennaio 1994, in Giur. lav. Lazio, 1994, 363).


6. Retribuzione
I. La prassi aziendale di corrispondere, in occasione della festa della donna, tre ore aggiuntive di retribuzione alle sole dipendenti di sesso femminile, costituisce uso negoziale legittimo, non assorbibile negli aumenti collettivi, e non inficiato dalla nullità prevista dall art. 16 l. 20 maggio 1970 n. 300, per i trattamenti economici di maggior favore, aventi carattere discriminatorio (Trib. Milano, 8 settembre 1993, in Riv. Critica Dir. Lav., 1994, 174).


7. Competenza
I. La giurisdizione di una controversia in materia di discriminazione ex art. 15 l. n. 903 del 1977, insorta dopo il 30 giugno 1998 tra una lavoratrice dipendente dal Ministero di grazia e giustizia appartiene alla cognizione del giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro (Trib. Teramo, 3 dicembre 1999, in Lav. Giur., 2000, 353).





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