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11/11/2016
I DOCENTI E GLI ATA PRECARI O GIA´ DI RUOLO POSSONO OTTENERE PER INTERO IL RICONOSCIMENTO DEL PERIODO PRERUOLO
La sentenza n. 22558/2016 della Suprema Corte di Cassazione Sezione Lavoro del 07.11.2016 è una sentenza storica per il mondo della SCUOLA PUBBLICA.
A partire da oggi qualunque precario per i dieci anni precedenti può chiedere con un ricorso al Giudice del Lavoro il riconoscimento giuridico della m...


10/04/2016
CHI ISCRIVE IPOTECA PER UN VALORE SPROPOSITATO PAGA I DANNI
E’ di questi ultimi giorni la decisione della Suprema Corte di Cassazione che ha stabilito una responsabilità aggravata in capo a chi ipoteca il bene (es. casa di abitazione) del debitore ma il credito per il quale sta agendo è di importo di gran lunga inferiore rispetto al bene ipotecato....


19/05/2015
Eccessiva durata dei processi: indennizzi più veloci ai cittadini lesi
La Banca d´Italia ed il Ministero della Giustizia hanno firmato un accordo di collaborazione per accelerare i tempi di pagamento, da parte dello Stato, degli indennizzi ai cittadini lesi dall´eccessiva durata dei processi (legge n. 89 del 2001, c.d. “legge Pinto”).
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26/11/2014
Sentenza Corte giustizia europea precariato: vittoria! Giornata storica.
La Corte Europea ha letto la sentenza sull´abuso dei contratti a termine. L´Italia ha sbagliato nel ricorrere alla reiterazione dei contratti a tempo determinato senza una previsione certa per l´assunzione in ruolo.
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02/04/2014
Previdenza - prescrizione ratei arretrati - 10 anni anche per i giudizi in corso
La Consulta boccia la norma d´interpretazione autentica di cui all’art. 38, comma 4, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, nella parte in cui prevede c...


27/11/2013
Gestione Separata Inps: obbligo d´iscrizione per i professionisti dipendenti?
Come è noto, la Gestione Separata dell’INPS è stata istituita dalla legge 335/1995 al fine di garantire copertura previdenziale ai lavoratori autonomi che ne fossero sprovvisti....


25/11/201
Pubblico dipendente, libero professionista, obbligo d´iscrizione alla Gestione Separata Inps
Come è noto, la Gestione Separata dell’INPS è stata istituita dalla legge 335/1995 al fine di garantire copertura previdenziale ai lavoratori autonomi che ne fossero sprovvisti.
...


05/05/2013
L´interesse ad agire nelle cause previdenziali. Analsi di alcune pronunce
Nell´area del diritto previdenziale vige il principio consolidato a livello giurisprudenziale, secondo il quale l’istante può avanzare all’Autorità Giudiziaria domanda generica di ricalcolo di un trattamento pensionistico che si ritiene essere stato calcolato dall’Istituto in modo errato, senza dete...









   sabato 15 maggio 2004

Divieto di licenziamento, dimissioni e diritto al rientro nel Testo Unico per la tutela della maternità e della paternità (D. lgsl. n. 151/2001) della dott.ssa Chiara Lensi


1. Premessa

2. Aspetti problematici del divieto di licenziamento per maternità

3. Profili di invalidità delle dimissioni rassegnate in conseguenza dello stato di gravidanza

4. Il diritto al rientro ed alla conservazione del posto di lavoro tra tutela della professionalità e diritto alla "stabilità geografica"





§ PREMESSA



La legge n. 53/2000 - così come risistemata dal T.U. delle disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, emanato con D.lgsl. n. 151/2001 - rappresenta un indiscutibile traguardo per le lavoratici madri.

Com è noto, essa garantisce alla madre naturale tutta una serie di diritti a tutela della salute fisica e psichica durante la gravidanza ed i primi mesi di vita del bambino ed offre opportunità analoghe anche ai genitori adottivi ed al padre lavoratore per consentire un adeguata cura dei figli.

Tuttavia, va rilevato fin d ora che le disposizioni della nuova disciplina non avrebbero avuto ragion d essere se il legislatore non avesse accompagnato ad esse un preciso sistema di tutele e garanzie del posto di lavoro.

Se, in altre parole, il legislatore non si fosse preoccupato di impedire qualsiasi forma di ritorsione collegata all uso dei congedi, sarebbero state vanificate anche le misure di tutela predisposte, giacché i timori per le possibili conseguenze sul rapporto di lavoro avrebbero forse indotto il genitore lavoratore a rinunciare a quei benefici che la legge, invece, gli riserva (in tal senso, si veda R. DEL PUNTA, La sospensione del rapporto di lavoro. Malattia, infortunio, maternità, servizio militare, in Il Codice Civile (artt. 2110 - 2111). Commentario diretto da P. Schlesinger, Giuffrè ed., 1992, Milano, 584).

In particolare, il Capo IX del D. lgsl. n. 151/2001 disciplina un quadro normativo chiaro e sistematico delle garanzie e delle tutele del posto di lavoro, individuando tali misure in tre tipologie di interventi (art. 54: divieto di licenziamento; art. 55: dimissioni; art. 56: diritto al rientro e alla conservazione del posto).



§ ASPETTI PROBLEMATICI DEL DIVIETO DI LICENZIAMENTO PER MATERNITA



Il D.lgsl. n. 151/2001 ha riconosciuto il diritto di assentarsi dal lavoro ad ogni genitore che fruisca di una delle forme di congedo previste dal nostro ordinamento.

L esercizio di tale diritto è, di regola, rimesso all iniziativa dei soggetti cui è stato concesso (è il caso del congedo parentale, ex astensione facoltativa), tuttavia ciò non toglie che, talvolta, il diritto di assentarsi dal lavoro sia soltanto un aspetto del più generale divieto di lavorare che è riconosciuto alle lavoratrici madri in una determinata fase della vita (è questo, invece, il caso del congedo di maternità, ex astensione obbligatoria).

Riconoscere, però, alle lavoratrici un diritto di non lavorare (o, comunque, assoggettarle ad un divieto di lavorare) impedisce soltanto che l assenza dal lavoro possa essa stessa causare la perdita del posto di lavoro, senza che ciò scongiuri anche l intimazione di un licenziamento immotivato con preavviso.

Perché quindi si possa mettere una lavoratrice al riparo da qualsiasi forma di ritorsione (e, in particolare, dal licenziamento per maternità) è necessario accompagnare alle norme che giustificano o rendono addirittura obbligatoria l astensione dal lavoro, altre norme che implichino un diritto alla conservazione del posto in senso forte, intendendo il conservare nel suo significato più pregnante di mantenere qualcosa in modo che non subisca alterazioni (Devoto-Oli), o mantenere qualcosa nello stato originario (Zingarelli), o assicurare la continuità, far durare, mantenere (Battaglia), o ancora in quello di preservare proteggendo - raro, secondo lo Zingarelli (così, R. DEL PUNTA, cit., 607).

Di ciò sembra essersi perfettamente reso conto il D.lgsl. n. 151/2001 che, nel disciplinare il divieto di licenziamento per maternità, legittima la conservazione del posto di lavoro tanto per le lavoratrici in stato di gravidanza e puerperio, quanto per i lavoratori padri che fruiscano del congedo di paternità (non, quindi, per tutti i lavoratori padri), nonché per i genitori lavoratori adottivi ed affidatari che si siano avvalsi, a loro volta, del congedo di maternità e di paternità.

Tale divieto di licenziamento che, in linea generale, cerca di tutelare il figlio nel primo anno di vita o di inserimento nella famiglia adottiva, subisce un temperamento in alcune ipotesi tassativamente indicate dalla legge (art. 54, 3º comma, del T.U.), ossia nel caso di colpa grave, di cessazione dell attività dell azienda, di scadenza del termine del rapporto, di esito negativo della prova.

L articolo 54 del D.lgsl. n. 151/2001 non si limita, quindi, ad impedire il licenziamento discriminatorio (si veda il 6º comma), ma mira soprattutto a garantire stabilità economica e psicologica alla madre lavoratrice impedendo - eccezion fatta per le ipotesi tassativamente previste - al datore di lavoro di esercitare il potere di recesso anche per delle ragioni che, se non ci fosse il divieto, potrebbero giustificarlo.

L attenzione riservata dal nostro ordinamento al divieto di licenziamento della lavoratrice madre è dunque funzionale alla costituzione di una speciale tutela degli aspetti della maternità strettamente collegati alla diversità fisiologica della donna rispetto all uomo. Ciò si desume sia a livello costituzionale (artt. 3, 31, 37: si tende a tutelare la maternità in quanto tale per il suo valore etico-sociale, nonché la donna inserita nel mondo del lavoro), sia a livello legislativo, ove la specialità delle norme a tutela della lavoratrice madre induce ad esonerare quest ultima dalla disciplina generale sul licenziamento del lavoratore, ex L. 604/66 e L. 300/70, art. 18).

La finalità sottesa alla L. 1204/71, prima, ed al T.U. 151/2001, poi, è quindi diretta ad evitare che nel periodo protetto intervengano, in relazione al rapporto di lavoro, comportamenti che possano turbare ingiustificatamente la condizione della donna ed alterare il suo equilibrio psicofisico, con serie ripercussioni sulla gestazione o, successivamente, sullo sviluppo del bambino. Tale finalità spiega pertanto la nullità del licenziamento ingiustificato operato in violazione del suddetto divieto e chiarisce anche perché la legge riconosca alla lavoratrice licenziata durante il periodo protetto il diritto ad ottenere il ripristino del rapporto di lavoro mediante la presentazione di un certificato che accerti la gravidanza esistente al momento del licenziamento.

Pur non potendo, in questa sede, ripercorrere tutta l evoluzione giurisprudenziale e dottrinale che ha condotto all adozione di tale previsione, è opportuno precisare che oggi la presentazione del certificato attestante lo stato di gravidanza assolve ad una funzione esclusivamente probatoria, trattandosi della comunicazione di un fatto cui la legge ricollega automaticamente certe conseguenze (cfr. art. 54, 5º e 6º comma). Il divieto di licenziamento opera infatti in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza ed il certificato che lo attesta è funzionale alla sola prova dello stato interessante della lavoratrice, dal momento che l inizio del divieto di licenziamento non è più collegato alla presentazione di tale certificato, bensì all inizio della gestazione. Tale certificato può quindi trovare un equipollente nella prova della conoscenza dello stato di gravidanza da parte del datore di lavoro al momento del licenziamento.

Semmai il problema giuridico che rimane aperto è quello del quid iuris nel caso in cui una lavoratrice faccia valere la nullità del licenziamento comminatole, a distanza di anni (l azione di nullità è, secondo le regole generali, imprescrittibile), facendo così precipitare nel baratro dell incertezza giuridica i datori di lavoro che, in tal modo, corrono il rischio di sentirsi contestare licenziamenti intimati tempo addietro senza avere adeguate possibilità di difesa. Tale problematica ha senso soprattutto considerando che il T.U., a differenza della L. 1204/1971, non si richiama più al termine di decadenza di 90 giorni per la presentazione di tale certificato.

Sebbene la norma in esame faccia riferimento alla sola ipotesi di chi sia stata licenziata senza aver prodotto il certificato di gravidanza, ragioni di opportunità inducono a ritenere la norma applicabile anche al caso in cui la lavoratrice sia stata licenziata in seguito alla presentazione del certificato.

Il divieto di licenziamento opera fino al termine dei periodi di interdizione dal lavoro (ossia tre mesi dopo il parto), nonché fino al compimento di un anno di età del bambino. La doppia previsione serve a coprire i casi in cui il bambino nasca morto o muoia durante i tre mesi di interdizione dal lavoro e risponde alla volontà di non turbare ulteriormente la lavoratrice madre in un periodo così delicato dal punto di vista emotivo.

Quanto, poi, all interruzione della gravidanza, essa viene considerata come parto o come malattia, a seconda che sia avvenuta successivamente o anteriormente al centottantesimo giorno dal suo inizio. Pertanto, nel caso in cui debba essere assimilata al parto, opererà il divieto di licenziamento; viceversa, nel caso in cui l interruzione della gravidanza debba essere qualificata come aborto, opererà il divieto di recesso per malattia.

Tra le parti più interessanti della norma, v è senz altro il disposto di cui al 3º comma dell art. 54 T.U., circa le deroghe al divieto di licenziamento.

Tra esse, di particolare interesse è l ipotesi di colpa grave della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto.

In dottrina si sostiene che molto opportunamente il legislatore richiama il duplice parametro della colpa grave e della giusta causa, dal momento che con il rinvio alla sola colpa grave della lavoratrice si sarebbe potuta ammettere la sussistenza della deroga al divieto di licenziamento non solo nel caso di giusta causa, ma anche in quello di giustificato motivo soggettivo di cui all articolo 3, L. 604/66.

La giurisprudenza ha affermato che la nozione di giusta causa prevista per il licenziamento della lavoratrice assume aspetti caratteristici rispetto a quella ricavabile dall articolo 2119 c.c., richiedendo una colpa più qualificata, dal punto di vista soggettivo, in ragione delle specifiche condizioni psicofisiche in cui versa la donna madre, e comprendente situazioni più complesse rispetto ai comuni schemi, dal punto di vista oggettivo (in tal senso, Cass. 21 settembre 2000, n. 12503, in Foro it., 2001, I, 111).

Il licenziamento della lavoratrice in stato di gravidanza è perciò ammissibile soltanto per colpa grave, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro. Tale "colpa grave" non è integrata dalla semplice colpa richiesta per le altre ipotesi di licenziamento, essendo necessaria - appunto - la gravità di essa. Ciò implica che non è sufficiente accertare la sussistenza di una situazione prevista dalla contrattazione collettiva quale giusta causa idonea a legittimare la sanzione espulsiva, ma è invece necessario verificare - con accertamento riservato al giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimità, se adeguatamente motivato - se sussista quella colpa specificamente prevista dalla norma e diversa (per l indicato connotato di gravità) da quella prevista dalla disciplina pattizia per generici casi di inadempimento del lavoratore sanzionati con la risoluzione del rapporto (Cass. 18 febbraio 1993, n. 1973, in Lav. e prev. oggi, 1993, 1039).

Ci si può, semmai, chiedere se tale nozione più qualificata di giusta causa (che fa riferimento alle condizioni psicofisiche in cui versa la donna madre) possa valere anche qualora tali condizioni non sussistano, come nel caso dei padri o dei genitori adottivi, garantendo anche ad essi una tutela più intensa o se debbano, invece, applicarsi gli usuali criteri esegetici.

Del pari, il divieto di licenziamento non è applicabile nel caso in cui cessi l attività dell azienda in cui la lavoratrice è addetta.

L orientamento maggioritario ritiene configurabile tale deroga non solo in caso di cessazione totale dell attività dell azienda, ma anche nel caso in cui la cessazione dell attività sia parziale, purché riguardi un ramo di attività o un reparto autonomo dell azienda. Si è tuttavia precisato che incombe sul datore l onere di provare che la lavoratrice non può essere collocata altrove all interno dell azienda, con ciò dimostrando che il licenziamento è effettivamente l unica strada possibile (in tal senso, Cass. 26 marzo 1982, n. 1897, in Riv. it. dir. lav., 1983, II, 91).

La cessazione dell attività, sia pur parziale, non può però consistere in una mera riduzione di attività, in un semplice cambiamento di luogo della stessa o nella ristrutturazione dell unità di appartenenza della lavoratrice, essendo necessario che la vicenda che ha colpito l azienda abbia comunque determinato la definitiva soppressione di un reparto autonomo della stessa (così, Cass. 2 aprile 1992, n. 4034, in Mass. giur. lav., 1992, 364; Cass. 26 ottobre 1986, n.6236, in Giust. civ., 1987, I, 62; Cass. 16 novembre 1985, n.5647, in Giust. civ., 1986, I, 1074; Cass. n. 1897/1982, cit.. Per i rapporti tra questa eccezione al divieto di licenziamento e la disciplina sui licenziamenti collettivi, si rinvia a R. DEL PUNTA, I licenziamenti collettivi per riduzione di personale, in Giust. civ., 1983, II, 55).

Costituiscono altresì eccezioni al divieto di licenziamento, l ipotesi di ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o la risoluzione del rapporto di lavoro per scadenza del termine; nonché il caso di licenziamento per esito negativo del patto di prova.

Sotto un profilo sanzionatorio, il licenziamento intimato in violazione delle suddette norme imperative è nullo alla stregua dei normali principi civilistici in tema di nullità dei negozi.

D altra parte, la scelta di sanzionare con la nullità - e non con una mera inefficacia temporanea - il recesso viziato è oggi imposta dalla Corte Costituzionale che, con la storica sentenza n. 61/91 (Corte Costituzionale 8 febbraio 1991, n. 61, in Mass. giur. lav., 1991, 4), ha definitivamente posto fine al dibattito circa il tipo di sanzione con cui colpire il licenziamento illegittimo a danno della lavoratrice madre.

L articolo 2 della L. 1204/1971 non precisava, infatti, quale fosse la sanzione da applicare al recesso viziato e la Corte di Cassazione (Cass. 20 ottobre 1987, n. 7747, in Giust. civ., 1988, I, 428; Cass. 14 dicembre 1981, n. 6611, in Orient. giur. lav., 1982, 1413), in via interpretativa, aveva ritenuto che esso dovesse essere sanzionato con l inefficacia temporanea (operante sino alla cessazione del divieto, cioè sino ad un anno dal momento del parto).

Entrando in collisione con le Sezioni Unite della Cassazione (per l avallo definitivo nel senso della inefficacia del recesso viziato, Cass. S.U. 21 agosto 1990, n.8535, in Foro it., 1990, I, 2481), la Corte Costituzionale ha invece esteso la sanzione della nullità, prevista espressamente per il licenziamento a causa di matrimonio, al licenziamento della lavoratrice madre, dichiarando incostituzionale la consolidata qualificazione giurisprudenziale di mera inefficacia temporanea del recesso sino allo scadere del periodo di divieto. La Corte ha motivato la sua decisione affermando che la lavoratrice madre alla quale sia intimato un licenziamento, seppur con efficacia differita, ne resterebbe comunque turbata ed è, pertanto, compito del diritto garantirle una serenità che sia funzionale alle esigenze psicofisiche del bambino, e forse più ancora a quelle del feto durante la gestazione.

Le argomentazioni testé svolte consentono, inoltre, di rispondere alla controversa questione circa la modifica del rapporto di lavoro una volta che sia decorso il periodo dei congedi parentali, ossia dopo un anno di età del figlio.

Da parte di alcuni è stato infatti obiettato che il T.U. sarebbe mal formulato nella parte in cui consente al datore di adottare - in maniera libera - provvedimenti che incidono sul rapporto di lavoro dopo che sia decorso il periodo protetto dalla legge. In sostanza, ci si è chiesti se fosse legittimo tutelare la lavoratrice madre nel primo anno di vita del figlio, per poi consentire al datore di licenziarla immediatamente dopo, magari facendo valere motivi riconducibili a fatti o situazioni verificatesi durante il periodo di operatività del divieto.

Nell opinione di chi scrive, non solo ciò è perfettamente lecito ma, se vogliamo, anche ovvio.

Anche se volessimo trascurare che ogni testo di legge introduce necessariamente un "prima" e un "dopo" e che se intendessimo interpretare questo confine a nostro piacimento finiremmo solo con il frustrare il principio di certezza del diritto, resta tuttavia il fatto che il T.U., almeno nelle sue intenzioni, ha voluto proteggere in maniera rafforzata un periodo di vita della lavoratrice durante il quale è parso più opportuno garantire stabilità e sicurezza, senza però che ciò equivalesse né ad assoggettarla ad una tutela speciale per tutta la vita (e quindi anche quando fosse terminata la ragione che ne aveva legittimato la previsione, ossia la tenerissima età del bambino), né tanto meno a privarla della tutela prevista dalle regole generali in tema di licenziamento illegittimo e discriminatorio (che pertanto resteranno perfettamente valide laddove ne sia dimostrata la fondatezza).

Diversamente avremmo un eccesso di tutela che contrasterebbe proprio con le motivazioni che a tale tutela avevano spinto.

Peraltro, la questione è stata esaminata dalla già citata Corte Costituzionale (61/91), la quale ha sostenuto che, allo scadere del periodo protetto, il datore di lavoro riacquista l integrità del suo potere di recesso, nel rispetto dei limiti previsti dalla legge e dalle regole da essa imposte. Quanto alla causa giustificatrice, nulla esige che la stessa sia nuova, essendo invece necessario che essa sussista (ancora) al momento in cui il licenziamento viene legittimamente intimato (il che, semmai, lo rende piuttosto difficile nell ipotesi di licenziamento dovuto ad inadempimento della lavoratrice madre, mentre la perdurante attualità della ragione verificatasi durante il periodo di divieto sembra piuttosto probabile nel caso di ragioni organizzative e tecnico - produttive).

Si discute, infine, se a tale licenziamento illegittimo possa o meno applicarsi l art. 18 S.L. in tema di reintegrazione nel posto di lavoro, con condanna del datore alla reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno previsto dalla stessa norma in relazione al periodo di tempo che va dal licenziamento alla sentenza. Sembra preferibile escludere l applicabilità dell art. 18 anche a tale ipotesi in quanto, nonostante tale norma possieda una forza espansiva tale da renderla applicabile anche a casi diversi da quelli espressamente contemplati, la violazione del divieto di licenziamento della lavoratrice madre è assoggettato ad una diversa, specifica disciplina.

Senza contare che, ai fini pratici, l applicazione della disciplina comune sulla mora credendi ex artt. 1418 e 1223 c.c. - che consegue alla declaratoria di nullità, secondo il diritto comune - consente di pervenire al medesimo risultato, giacché alla lavoratrice spetteranno comunque a titolo risarcitorio le retribuzioni maturate e maturande fino all effettivo ripristino del rapporto.

Quanto, infine, al divieto di sospensione dal lavoro - previsto dal 4º comma dell art. 54 del T.U. - la scelta normativa è stata quella di farlo coincidere con il divieto di licenziamento, nel senso che durante il periodo nel quale opera quest ultimo, la lavoratrice non può nemmeno essere sospesa da lavoro, salvo il caso in cui sia sospesa l attività dell azienda o del reparto cui essa è addetta, sempre che il reparto stesso abbia autonomia funzionale. La lavoratrice non può altresì essere collocata in mobilità a seguito di licenziamento collettivo ai sensi della legge 23 luglio 1991, n. 223, e successive modificazioni, salva l ipotesi di collocamento in mobilità a seguito della cessazione dell attività dell azienda cui essa è addetta.

La giurisprudenza ha interpretato questa norma in senso funzionale al divieto di licenziamento ed ha pertanto ritenuto sussistente il divieto di sospensione dal lavoro anche nel caso in cui la gravidanza della lavoratrice sia sopravvenuta alla sospensione, facendo venire meno, a partire da quel momento, gli effetti del provvedimento.

L atto compiuto in violazione del suddetto divieto è da considerarsi nullo, con conseguente ripristino del rapporto.

Divieto di licenziamento e divieto di sospensione dal lavoro rispondono, quindi, alla medesima finalità di garantire alla lavoratrice madre non una platonica conservazione del posto di lavoro, bensì la sopravvivenza di un rapporto pieno e completo a tutti gli effetti, non ultimi quelli di natura patrimoniale.



§ PROFILI DI INVALIDITA DELLE DIMISSIONI RASSEGNATE IN CONSEGUENZA DELLO STATO DI GRAVIDANZA



Una delle principali preoccupazioni del legislatore è stata quella di evitare che il divieto di licenziamento potesse essere aggirato con false dimissioni, sostanzialmente imposte alla lavoratrice madre.

Pertanto, per garantire che le dimissioni non siano state provocate da eventuali pressioni del datore di lavoro, il legislatore ha previsto specifiche regole in caso di maternità.

Le dimissioni involontarie altro non sono che una forma mascherata di licenziamento illegittimo, giacché ad esse la lavoratrice perviene non per libera scelta, bensì perché indotta a ciò dal datore di lavoro. Questi, non accettando determinate condizioni in cui viene a trovarsi la lavoratrice (fra le quali spicca, appunto, lo stato di gravidanza), tenta di aggirare la legge costringendo la propria dipendente a dimettersi, o chiedendoglielo espressamente o rendendole l ambiente di lavoro impossibile (tematica questa che si intreccia con quella, altrettanto complessa, del mobbing) oppure, fatto non infrequente, obbligandola a sottoscrivere lettere di dimissioni già preparate dal datore di lavoro e minimamente volute dalla lavoratrice, spesso approfittando dello smarrimento e della debolezza genericamente conseguenti allo stato di gravidanza della dipendente.

Ogni volta che si verificano episodi del genere le lavoratrici sono gravemente lese nel loro diritto ad una libera manifestazione della loro volontà e vengono, di conseguenza, discriminate in ragione del loro stato di gravidanza, il che evidentemente rientra nella più ampia categoria delle discriminazioni per ragione di sesso.

Per proteggere il genitore lavoratore da un datore che voglia indurlo a dimissioni fittizie, l art. 55 del D.lgsl. n. 151/2001 utilizza diverse tecniche.

Innanzitutto, il decreto riconosce al genitore lavoratore - che si sia dimesso durante il periodo in cui è previsto il divieto di licenziamento - il diritto alle indennità previste da disposizioni di legge e contrattuali per il caso di licenziamento. Nel caso di dimissioni avvenute in tale periodo protetto, la lavoratrice o il lavoratore non sono tenuti al preavviso.

La giurisprudenza maggioritaria riconosce, pertanto, al/alla lavoratore/lavoratrice dimissionario/a la spettanza dell indennità di anzianità e dell indennità sostitutiva del preavviso (fra le tante pronunce a riguardo, si veda Cass. 14 maggio 1985, n. 2999, in Foro it., 1985, I, 1979; Cass. 9 marzo 1976, n. 810, in Giur. it., 1976, I, 1, 1093; Cass. 22 ottobre 1975, n. 3475, in Foro it., 1976, I, 1956).

Attribuire ai lavoratori dimissionari per maternità o paternità tanto l indennità di preavviso, quanto l esonero dal medesimo, mira a sostenere quegli individui che, indipendentemente dal motivo del recesso, abbiano deciso di porre fine al rapporto di lavoro. La legge si è, cioè, fatta carico di una situazione estremamente delicata e difficile nella vita di un lavoratore e, ancor più, di una lavoratrice; pertanto si è scelto di garantire - a chi si dimette - un piccolo aiuto economico, anche se al limite il datore di lavoro non abbia commesso nessun comportamento illecito. Viceversa, nel caso in cui il datore abbia inteso obbligare un/una suo/a dipendente a rassegnare le dimissioni, la norma in esame, almeno nelle sue intenzioni, potrebbe fungere da freno a tali iniziative.

Autorevole dottrina ha perciò sottolineato che il fatto che le garanzie a protezione del posto di lavoro operino oggettivamente, ossia a prescindere dai motivi che hanno determinato la fine del rapporto di lavoro, dovrebbe far respingere la tesi per cui non avrebbe diritto all indennità di preavviso la lavoratrice che si sia dimessa non per dedicarsi alla gravidanza o al bambino, ma per passare ad altro impiego (così, R. DEL PUNTA, cit., 660).

In secondo luogo, le dimissioni presentate dalla lavoratrice madre o dal lavoratore padre, durante il periodo in cui sussiste il divieto di licenziamento, devono essere convalidate dal Servizio Ispettivo territoriale del Ministero del Lavoro. Tale convalida non è, ovviamente, in grado di evitare che dietro dimissioni apparentemente volontarie si nascondano invece casi di volontà viziata; tuttavia non si può non riconoscere che essa assolve ad una fondamentale funzione di filtro tra ciò che realmente si è voluto (per le più disparate ragioni) e ciò che invece si è state costrette a volere (per una ragione spesso univoca).

A tal proposito, la versione odierna della disciplina delle dimissioni del genitore lavoratore ha l indiscutibile pregio di aver posto fine all annosa querelle che, per lungo tempo, ha avvolto i rapporti tra la L. n. 1204/1971 ed il suo regolamento di esecuzione (D.P.R. 25 novembre 1976, n. 1026).

L articolo 11 del D.P.R. n. 1026/1976 subordinava infatti la validità delle dimissioni, presentate dalla lavoratrice, alla convalida di esse dell Ispettorato del Lavoro, al pari di quanto fa oggi l art. 55 del D.lgsl. n. 151/2001.

Il problema, allora, fu che la L. n. 1204/1971 non conteneva alcuna disposizione in tal senso e ciò indusse la Corte di Cassazione a ritenere illegittimo l articolo 11 per aver ecceduto i limiti della competenza regolamentare, nonché per aver dettato una disciplina in contrasto con il principio dell immediata validità ed efficacia delle dimissioni ai fini della risoluzione del rapporto (così, Cass. 15 novembre 1985, n. 5612, in Riv. it. dir. lav., 1986, II, 815).

Per quanto nemmeno prima le conclusioni della Suprema Corte sembrassero da condividere (più che una norma contra legem , l art. 11 era infatti da considerare una norma praeter legem, con finalità integrativa, e non contraddittoria, rispetto al senso della legge; inoltre non si capiva bene perché la previsione di una convalida, sia pur condizionante la risoluzione del rapporto di lavoro, avrebbe dovuto in qualche modo vincolare l autonomia negoziale della lavoratrice), certamente oggi devono ritenersi del tutto superate.

L art. 55 del D.lgsl. n. 151/2001 dispone infatti che "la richiesta di dimissioni presentata dalla lavoratrice, durante il periodo di gravidanza, e dalla lavoratrice o dal lavoratore durante il primo anno di vita del bambino o nel primo anno di accoglienza del minore adottato o in affidamento, deve essere convalidata dal servizio ispettivo del Ministero del Lavoro, competente per territorio. A detta convalida è condizionata la risoluzione del rapporto di lavoro".

Assimilate al licenziamento quanto al profilo indennitario e dispensate dall obbligo del preavviso, le dimissioni involontarie sono trattate quali dimissioni per giusta causa. Pertanto, la convalida delle dimissioni da parte dell Ispettorato del Lavoro fa venire meno il diritto della lavoratrice alla retribuzione fin dalla dichiarazione di recesso; viceversa, nel caso in cui l Ispettorato accerti la fittizietà delle dimissioni inoltrate, alla lavoratrice spetteranno le retribuzioni arretrate.

Dopo aver analizzato il quadro normativo relativo alle dimissioni per maternità, resta - de iure condendo - un ultima riflessione da fare.

Troppo spesso, in questi anni, si è assistito a dimissioni (involontarie), quale "generosa concessione" di aziende che intendono invece procedere a mirate riduzioni di personale. Quando, cioè, le imprese si trovano a dover rivedere la loro organizzazione interna, usano le dimissioni quasi fossero una sorta di strategia aziendale, inducendo malcapitati dipendenti a sottoscriverle in cambio dell affermata rinuncia del datore di lavoro ad esercitare il potere di risoluzione del rapporto di lavoro (potere che - nella maggioranza dei casi - non avrebbe comunque potuto esercitare) e di un modesto incentivo economico.

Laddove esigenze di efficienza e produttività rendono necessario eliminare lavoratori/trici "ingombranti", ecco che enfatizzare in modo esagerato banali mancanze del dipendente o anche mancanze disciplinarmente rilevanti, ma non sanzionabili con il licenziamento, costringe il dipendente ad accettare quello che ritiene il male minore, ossia sottoscrivere la lettera di dimissioni.

Senza contare che in queste circostanze il lavoratore si trova a dover decidere in tempi estremamente brevi, spesso senza l aiuto di personale qualificato, in grado di renderlo edotto sulla realtà della sua situazione.

Per quanto non sia infrequente che, in seguito, il lavoratore si renda conto di aver agito contro la propria volontà e soprattutto senza valutare strade alternative alle dimissioni, ciò non di meno dimostrare giudizialmente di aver prestato un consenso né libero né consapevole finisce per tradursi in una sorta di probatio diabolica che di rado vede vittorioso il dipendente.

Di qui la condivisione del pensiero di chi auspica come urgente la riforma della disciplina delle dimissioni, intervenendo sul testo dell attuale articolo 2118 c.c. per rafforzare la posizione del lavoratore dimissionario (in tal senso, M. MEUCCI, L annullabilità delle dimissioni estorte, in Lavoro e Previdenza oggi, 1996, 12, 2081).

In particolare, sarebbe opportuno subordinare la validità e l efficacia delle dimissioni all assenza di un atto di revoca, da esercitarsi entro un termine breve (7 o 15 giorni), al pari di quanto già avviene per la vendita a domicilio o per quella effettuata al di fuori degli esercizi commerciali.

Accordare al lavoratore dimissionario il diritto di recesso di fronte ad una scelta ben più importante dell acquisto di un enciclopedia o di un corso di lingue - ossia la decisione di rinunciare al posto di lavoro - non è, nell opinione di chi scrive, una tappa ulteriormente procrastinabile per un ordinamento, il nostro, che ha fatto della libera manifestazione di volontà un principio regolatore delle obbligazioni sinallagmatiche (in tal senso, M. MEUCCI, cit.).



§ IL DIRITTO AL RIENTRO ED ALLA CONSERVAZIONE DEL POSTO DI LAVORO TRA TUTELA DELLA PROFESSIONALITA E DIRITTO ALLA "STABILITA GEOGRAFICA"



Superfluo appare, invece, il disposto dell articolo 56 T.U. sul diritto al rientro ed alla conservazione del posto di lavoro.

Anche volendo trascurare che è la stessa previsione di un diritto (nella specie, del diritto al congedo) a comportare il riconoscimento a non subire un recesso fondato sullo stesso motivo per cui tale diritto è stato fruito, resta il fatto che il diritto alla conservazione del proprio posto di lavoro è già attribuito al dipendente pubblico e privato da norme inderogabili.

Ad ogni modo, l articolo 56 T.U. prevede che "al termine dei periodi di divieto di lavoro previsti dal Capo II e III, le lavoratrici hanno diritto di conservare il posto di lavoro e, salvo che espressamente vi rinuncino, di rientrare nella stessa unità produttiva ove erano occupate all inizio del periodo di gravidanza o in altra ubicata nel medesimo comune, e di permanervi fino al compimento di un anno di età del bambino; hanno altresì diritto di essere adibite alle mansioni da ultimo svolte o a mansioni equivalenti.

La disposizione di cui al comma 1 si applica anche al lavoratore al rientro al lavoro dopo la fruizione del congedo di paternità.

Negli altri casi di congedo, di permesso o di riposo disciplinati dal presente testo unico, la lavoratrice e il lavoratore hanno diritto alla conservazione del posto di lavoro e, salvo che espressamente vi rinuncino, al rientro nella stessa unità produttiva ove erano occupati al momento della richiesta, o in altra ubicata nel medesimo comune; hanno altresì diritto di essere adibiti alle mansioni da ultimo svolte o a mansioni equivalenti.

Le disposizioni del presente articolo si applicano anche in caso di adozione e di affidamento. Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 si applicano fino a un anno dall ingresso del minore nel nucleo familiare.

L inosservanza delle disposizioni contenute nel presente articolo è punita con la sanzione amministrativa di cui all art. 54, comma 8. Non è ammesso il pagamento in misura ridotta di cui all art. 16 della legge 24 novembre 1981, n. 689".

Se tuttavia il legislatore ha ritenuto opportuno ribadire tale concetto, ci si può sforzare di trovarne la spiegazione nella diffusa prassi di dequalificazione che, di fatto, colpisce le donne al rientro dalle assenze per maternità. Anche se non è da escludere che con questa disposizione si sia voluto coprire il fenomeno dell adibizione a mansioni superiori (pur non dequalificando un dipendente, si può però gravarlo di impegni incompatibili con le esigenze di vita familiare) o porre un freno alla stipulazione di patti derogatori al divieto di adibire a mansioni inferiori.

Se, dunque, la tutela della professionalità conferma un diritto di cui già godono tutti i lavoratori, altrettanto non può dirsi per quel diritto alla stabilità geografica che, salvo non sia oggetto di rinuncia da parte del genitore lavoratore, limita fortemente il potere di trasferimento del datore, almeno per quanto riguarda le fattispecie che rientrano nella previsione dei commi 1 e 2 dell articolo 56.

Mentre infatti i primi due commi della disposizione attribuiscono alla lavoratrice e al lavoratore una garanzia minima di stabilità (il primo compleanno del bambino), il terzo comma dell art. 56 T.U. lascia il lavoratore - che sia rientrato nella stessa unità produttiva - soggetto al normale potere gestionale del datore di lavoro. Certo, a seconda del periodo in cui sia stato disposto il trasferimento, questo potrà essere impugnato, ma ciò non toglie che la mancanza di una previsione analoga a quella dei primi due commi appaia piuttosto discutibile, soprattutto perché una sua modifica non è intervenuta nemmeno con il D.lgsl. n. 115/2003.

Per queste e per altre ragioni, sarebbe auspicabile che la materia divenisse oggetto di un accurata disciplina negoziale in grado di conciliare interessi contrapposti (quello del dipendente al congedo parentale e quello del datore all organizzazione del lavoro) e di risolvere contraddizioni difficilmente eliminabili, come quella attinente alla possibilità di trasferire una lavoratrice madre in una sede più vicina - e non più lontana - alla sua abitazione, rendendole magari più breve la distanza tra l abitazione ed il luogo di lavoro.


 
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