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11/11/2016
I DOCENTI E GLI ATA PRECARI O GIA´ DI RUOLO POSSONO OTTENERE PER INTERO IL RICONOSCIMENTO DEL PERIODO PRERUOLO
La sentenza n. 22558/2016 della Suprema Corte di Cassazione Sezione Lavoro del 07.11.2016 è una sentenza storica per il mondo della SCUOLA PUBBLICA.
A partire da oggi qualunque precario per i dieci anni precedenti può chiedere con un ricorso al Giudice del Lavoro il riconoscimento giuridico della m...


10/04/2016
CHI ISCRIVE IPOTECA PER UN VALORE SPROPOSITATO PAGA I DANNI
E’ di questi ultimi giorni la decisione della Suprema Corte di Cassazione che ha stabilito una responsabilità aggravata in capo a chi ipoteca il bene (es. casa di abitazione) del debitore ma il credito per il quale sta agendo è di importo di gran lunga inferiore rispetto al bene ipotecato....


19/05/2015
Eccessiva durata dei processi: indennizzi più veloci ai cittadini lesi
La Banca d´Italia ed il Ministero della Giustizia hanno firmato un accordo di collaborazione per accelerare i tempi di pagamento, da parte dello Stato, degli indennizzi ai cittadini lesi dall´eccessiva durata dei processi (legge n. 89 del 2001, c.d. “legge Pinto”).
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26/11/2014
Sentenza Corte giustizia europea precariato: vittoria! Giornata storica.
La Corte Europea ha letto la sentenza sull´abuso dei contratti a termine. L´Italia ha sbagliato nel ricorrere alla reiterazione dei contratti a tempo determinato senza una previsione certa per l´assunzione in ruolo.
Si apre così la strada alle assunzioni di miglialia di precari con 36 mesi di preca...


02/04/2014
Previdenza - prescrizione ratei arretrati - 10 anni anche per i giudizi in corso
La Consulta boccia la norma d´interpretazione autentica di cui all’art. 38, comma 4, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, nella parte in cui prevede c...


27/11/2013
Gestione Separata Inps: obbligo d´iscrizione per i professionisti dipendenti?
Come è noto, la Gestione Separata dell’INPS è stata istituita dalla legge 335/1995 al fine di garantire copertura previdenziale ai lavoratori autonomi che ne fossero sprovvisti....


25/11/201
Pubblico dipendente, libero professionista, obbligo d´iscrizione alla Gestione Separata Inps
Come è noto, la Gestione Separata dell’INPS è stata istituita dalla legge 335/1995 al fine di garantire copertura previdenziale ai lavoratori autonomi che ne fossero sprovvisti.
...


05/05/2013
L´interesse ad agire nelle cause previdenziali. Analsi di alcune pronunce
Nell´area del diritto previdenziale vige il principio consolidato a livello giurisprudenziale, secondo il quale l’istante può avanzare all’Autorità Giudiziaria domanda generica di ricalcolo di un trattamento pensionistico che si ritiene essere stato calcolato dall’Istituto in modo errato, senza dete...









   domenica 21 novembre 2004

SPECIALE: DAI CO.CO.CO. AI CO.PRO.PRO.: VERA INNOVAZIONE O MERA VARIAZIONE SEMANTICA?

dei dott.ri Giovanni Porretta ed Eugenio Santo - Masterizzandi in “Scienze applicate del lavoro e della previdenza sociale” presso l’Università degli studi di Roma “La Sapienza”; collaboratori presso il Ministero del Lavoro-





DAI CO.CO.CO. AI CO.PRO.PRO.:

VERA INNOVAZIONE O MERA VARIAZIONE SEMANTICA?



di Giovanni Porretta* ed Eugenio Santo*



SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La nozione di collaborazione coordinata e continuativa nell’art. 409 n. 3 c.p.c.: il valore e la funzione della nozione processuale. – 3. Gli indici utilizzati dalla giurisprudenza per ricondurre la fattispecie concreta a quella astratta di cui alla 409 n. 3 c.p.c. – 3.1. La collaborazione e la debolezza contrattuale del prestatore d’opera. – 3.2. Il coordinamento e l’assoggettamento alle direttive del committente. – 3.3. La continuità, la collocazione temporale dell’attività lavorativa e la retribuzione come mezzo conoscitivo della prestazione. – 3.4. Il carattere prevalentemente personale della prestazione. – 4. I rapporti di collaborazione coordinata e continuativa con le fattispecie di lavoro subordinato e lavoro autonomo. Primo approccio alle problematiche irrisolte dal D. Lgs. 276/2003. – 5. Il lavoro a progetto come nuovo tipo contrattuale: ridefinizione del sistema rispetto agli altri tipi contrattuali fondamentali nel diritto del lavoro. – 6. Nozione di contratto di lavoro a progetto. – 7. Le esclusioni e la disciplina transitoria. – 8. Il progetto come oggetto del contratto. – 9. Il lavoro a progetto come obbligazione di risultato e come contratto ad esecuzione prolungata. – 10. Il requisito del progetto specifico o programma di lavoro o fasi di esso: la chiave di volta del nuovo schema contrattuale. – 11. La forma. – 12. Il principio della retribuzione proporzionale e sufficiente e la sua estensione al lavoratore a progetto. – 13. Obbligo di fedeltà e patto di non concorrenza. – 14. La diligenza. – 15. Le invenzioni del collaboratore a progetto. – 16. Altri diritti del collaboratore a progetto: maternità malattia e infortunio. – 17. Le collaborazioni senza progetto. – 18. Rinunzie e transazioni. – 19. Conclusioni: il lavoro a progetto tra coordinazione e struttura aziendale.





1. Premessa.



Con il D. Lgs. 276/2003 il legislatore ha dato attuazione alla legge delega 30/2003 relativa alla materia della occupazione e del mercato del lavoro disciplinando, tra l’altro, il nuovo tipo legale del lavoro a progetto.

Come chiaramente evidenziato dalla relazione accompagnatoria del decreto legislativo 276/2003, la motivazione che ha indotto il legislatore a costruire questo nuovo tipo è da individuarsi nella volontà di porre un freno all’indiscriminato utilizzo delle collaborazioni coordinate e continuative , che nella pratica vengono spesso utilizzate in sostituzione del classico contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato per i noti vantaggi di disciplina legale e previdenziale, con conseguente – ed eccessiva – flessibilizzazione (o forse sarebbe meglio dire precarizzazione) dell’intero mercato del lavoro. Quindi nell’ambito di una generale volontà del legislatore di flessibilizzare la normativa del lavoro subordinato (v. i nuovi istituti del lavoro a chiamata, del lavoro a prestazioni ripartite, della somministrazione di lavoro o dello stesso lavoro a tempo parziale), si deve concludere che la ratio sottesa al tipo contrattuale del lavoro a progetto sia invece quella di “irrigidire” quella parte di mercato del lavoro interessata dall’abuso dell’utilizzo dei co.co.co..

Forse è il caso di sottolineare che le nuova disciplina del lavoro a progetto rappresenta uno dei due cardini fondamentali sui quali si è fondato quella sorta di “scambio politico” tra il Governo e le parti sociali. In particolare ci si vuole riferire al fatto che l’attuale D.Lgs. 276/2003 è il punto di incontro di una politica legislativa che aveva come prima principale linea direttrice l’abbattimento degli abusi nell’utilizzo dei co.co.co. (linea caldeggiata dalle associazioni dei lavoratori) ma che dall’altro lato intendeva flessibilizzare il mercato (finalità questa evidentemente a cuore delle associazioni dei datori di lavoro) a fini di maggiore occupazione. Per meglio specificare quanto intende dirsi può schematizzarsi nel senso il detto “scambio politico” sia avvenuto tra una drastica riduzione dei co.co.co. ed una forte flessibilizzazione dei tempi di lavoro. Ed è infatti la “nuova disciplina dei tempi di lavoro”, intesa come termine generalmente ricomprensivo di tutti quei nuovi sottotipi del lavoro subordinato che pur non integrando nuove fattispecie contrattuali allargano sensibilmente le possibilità di un utilizzo sempre più articolato dei tempi di lavoro, rappresenta proprio l’altro elemento fondante di quell’accordo che rappresenta il presupposto socio-politico del D. Lgs. 276/2003 e prima ancora della legge delega 30/2003.

Se questo è vero deve però già notarsi come la costruzione del nuovo schema contrattuale delineata agli artt. 61 e ss. D. Lgs. 276/2003 sia suscettibile di interpretazione “perverse” le quali non solo potrebbero portare ad un annullamento delle finalità perseguite, ma potrebbero anzi peggiorare la situazione, portando ad un indiscriminato utilizzo delle co.pro.pro (ovvero collaborazioni a programma o progetto) in aggiunta – e non in sostituzione – ai co.co.co..

L’oggetto della presente indagine mira quindi a ricostruire gli elementi strutturali del nuovo lavoro a progetto cercando il più possibile di rispettare l’intentio legis.

Prima di passare a valutare i vari aspetti problematici posti dalla nuova disciplina, pare necessaria una ricostruzione della evoluzione dottrinaria e giurisprudenziale relativa alle collaborazioni coordinate e continuativa a carattere prevalentemente personale.





2. La nozione di collaborazione coordinata e continuativa nell’art. 409 n. 3 c.p.c.: il valore e la funzione della nozione processuale



Il lavoro parasubordinato ha trovato la sua prima considerazione legislativa nella Legge Vigorelli (n. 741/1959), in tema d’estensione erga omnes dei contratti collettivi. L’art. 2 della legge stabiliva che le norme giuridiche di cui all’art. 1 (e cioè i decreti legislativi che estendevano, erga omnes, contratti e accordi economici collettivi) dovessero essere emanate per tutte le categorie per cui risultassero stipulati contratti e accordi economici collettivi aventi ad oggetto la disciplina dei rapporti di lavoro, ivi compresi i rapporti di collaborazione che si concretino in prestazione d’opera continuativa e coordinata.

Estendendo quindi a tutti i lavoratori gli accordi economici e i contratti collettivi relativi anche a questi particolari rapporti di lavoro, caratterizzati dall’assenza di subordinazione, il legislatore (come era pure dai lavori preparatori della legge) ha inteso tutelare anche queste particolari categorie di prestatori d’opera, al fine di garantirne il minimo inderogabile di trattamento economico e normativo.

Il legislatore sanciva cosi l’esistenza di un tratto comune tra lavoratori subordinati e collaboratori dell’impresa non subordinati, la cui prestazione avesse però carattere continuativo e coordinato.

Nella legge non veniva menzionato il carattere personale della prestazione , tuttavia, essendo stata accolta con favore l’estensione dei contratti collettivi per le categorie parasubordinate , non si era mancato di sottolineare come l’esistenza di un trattamento minimo inderogabile, economico e normativo, nascesse da una disparità contrattuale spiegata dalla soggezione economica, a sua volta avente causa nella diretta implicazione della persona nella prestazione di lavoro parasubordinato . Nonostante l’apprezzamento, la legge 741/1959 non poteva essere considerata idonea a ricostruire da sola una figura specifica di “collaboratore”continuativo e coordinato, poiché la formulazione dell’art 2 era concretamente riferibile ai soli rapporti d’agenzia e rappresentanza commerciale, limitatamente ai quali, era dato riscontrare un sufficiente grado di aggregazione degli interessi e, conseguentemente, di produzione normativa contrattuale .

L’espressione “ collaborazione coordinata e continuativa” ha trovato la sua definitiva consacrazione nel quadro della Legge 11 agosto 1973, n 533, sulla riforma del processo del lavoro , laddove, nell’individuare l’area di applicabilità di detta legge, si sono comprese ,nell’ ambito delle controversie individuali di lavoro, quelle relative ai rapporti d’agenzia, di rappresentanza commerciale ed altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione d’opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato .

La continuatività, il coordinamento e il carattere prevalentemente personale della prestazione sono i punti d’emersione di una disciplina dottrinaria, che consenta di considerare la rilevanza giuridica del prestatore di lavoro coordinato. Il valore che emerge dal confronto dei diversi comma dell’art. 409 n°3 c.p.c., in particolare dal comma 1 e 3, conferma la tendenza della giurisprudenza del lavoro di estendere alcuni principi propri del diritto del lavoro a quei rapporti che non corrispondono tecnicamente alle fattispecie di lavoro già esistenti . Tale tendenza nega la possibilità di considerare l’esistenza di un nuovo rapporto che, pur non essendo compatibile né al lavoro subordinato né al lavoro autonomo, presenta tratti comuni sia con il primo che con il secondo. Ma l’art. 409 n°3 c.p.c. è essenzialmente norma processuale, avendo per oggetto la ripartizione di competenze giurisdizionali e la delimitazione del campo d’applicazione del rito speciale del lavoro. L’applicazione della tutela giurisdizionale, inevitabilmente, fa riferimento a dati d’immediata evidenza, quali quelli che emergono dalla dicitura dell’art. 409 n°3 c.p.c: l’estensione temporale, il coordinamento e il carattere personale della prestazione. Solo dall’analisi dei singoli tratti si può determinare l’attribuzione della competenza. Il valore e la funzione della norma dipendono dagli orientamenti che giurisprudenza di merito e Cassazione danno ai segmenti peculiari dell’art. 409 c.p.c. . In ogni modo, l’orientamento interpretativo si sofferma, principalmente, sul carattere coordinato della prestazione, perché quello della continuità, inteso com’estensione temporale, non è mai d’immediata percezione. Il carattere coordinato della prestazione è comunemente interpretato in sede giurisprudenziale in senso assai meno rigoroso rispetto al coordinamento (spaziale e temporale), che è l’elemento essenziale della fattispecie di cui all’art. 2094 cod. civ.

In dottrina, invece, l’essenza del coordinamento è stata ravvisata nel collegamento funzionale della prestazione lavorativa con l’attività del creditore . Tale espressione dottrinale apre la ricerca a nuovi campi d’indagine, introducendo quell’aspetto del diritto civile che richiama all’autonomia contrattuale delle parti.

E’ evidente che, se nel rapporto intercorrente tra prestatore e committente non è stabilita la modalità d’esecuzione della prestazione, il contratto risulterà suscettibile di risoluzione. Quindi, entro questi limiti, è garantito il collegamento funzionale della prestazione di lavoro coordinata con l’interesse del committente.

E’ la dipendenza contrattuale del prestatore di lavoro che garantisce l’effettivo coordinamento dell’attività lavorativa con quella del creditore di lavoro, anche se lascia spazio alla ricerca di quella dipendenza gerarchica e potere disciplinare dell’imprenditore, tipico del rapporto di lavoro subordinato. Non è escluso un potere di controllo del committente verso il lavoratore coordinato almeno sulla modalità d’esecuzione dell’opera. Il controllo è ravvisabile nell’attività del proponente nei confronti dell’agente, poiché diretto a verificare la conformità della prestazione di lavoro alle condizioni contrattualmente pattuite, e volto a garantire la soddisfazione continua di un interesse durevole del committente, giustificando nel rapporto d’agenzia la determinazione d’istruzioni proposte al lavoratore coordinato. L’espressione continuativa, coordinata e prevalentemente personale di cui all’art. 409 n°3 c.p.c., definisce l’insieme delle prestazioni lavorative personali , caratterizzate da un modesto coordinamento rispetto all’attività, alle esigenze organizzative del committente e all’estensione temporale dell’attività prestata. Dunque, l’esigenza di un’azione processuale rapida e incisiva, di cui all’art. 409 c.p.c., è giustificata dalla tutela dei diritti di quei soggetti che, dalla propria attività coordinata e continuativa, traggono il proprio reddito. Il valore e la funzione della norma processuale, anche se residua e marginale, si risolve in una garanzia processuale per alcuni soggetti, ma lascia troppo spazio ad alcune analogie e differenze con le fattispecie di lavoro dipendente e autonomo . È proprio la stretta somiglianza con le tipizzazioni concrete di lavoro, autonomo e subordinato, che rende meno agevole per l’interprete collocare in un’area distinta questa nuova possibile fattispecie poiché, se cosi fosse, andrebbe al limite tra autonomia e subordinazione, rischiando di essere riassorbita ora nell’una ora nell’altra delle due particolari forme di lavoro. Nella realtà è sempre più frequente una posizione di dipendenza economica del prestatore d’opera non contrassegnata da una formale subordinazione. Quindi solo convenzionalmente è giustificato il costrutto dottrinale di lavoro parasubordinato attribuito a tali rapporti . È doveroso evitare l’applicazione analogica dei diritti e delle tutele ascritte al lavoro dipendente e al lavoro ex art. 2222 cod. civ. nell’operazione di ricostruzione normativa dell’ art. 409 n°3 c.p.c, per non incappare in una interpretazione arbitraria del dettame sotteso nell’art. processuale in oggetto.





3. Gli indici utilizzati dalla giurisprudenza per ricondurre la fattispecie concreta a quella astratta di cui alla 409 n. 3 c.p.c.



3.1. La collaborazione e la debolezza contrattuale del prestatore d’opera



La riconduzione del modello concreto alla fattispecie astratta dell’art. 409 n°3 c.p.c. non è mai di facile interpretazione. Occorre guardare attentamente ai requisiti nel medesimo articolo processuale ricordando che essi comprendono sia i rapporti espressamente menzionati dalla legge, cioè agenzia e rappresentanza, sia gli altri rapporti genericamente inclusi nell’area delle collaborazioni coordinate e continuative. Il punto d’inizio della trattazione è rivolto all’analisi del concetto della “collaborazione”, il cui ricorso alle fonti non è privo di ambiguità e contraddizioni. Dapprima, espressione peculiare dell’ideologia corporativa del legislatore del 1942, la collaborazione è spesso servita ad avvalorare la tesi di una concezione istituzionale e comunitaria dell’impresa. È proprio la nozione contenuta nell’art. 2094 cod. civ., che ha inteso dilatare l’area debitoria del prestatore subordinato ben oltre lo scambio contrattuale fra lavoro e retribuzione, nella prospettiva di una mobilitazione personale ed esistenziale del lavoratore nell’interesse dell’impresa. La collaborazione, dapprima come obbligo del lavoratore subordinato nel cod. civ., assume rilevanza costituzionale nell’articolo che prevede forme partecipative dei lavoratori all’organizzazione dell’impresa. L’articolo 46 Cost., in piena armonia con l’esigenza della produzione, riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge, alla gestione dell’azienda. Nell’analisi dell’art. 409 c.p.c. è rilevante evidenziare se i rapporti di collaborazione citati, richiamino quel collaborare nell’impresa di cui all’art. 2094 cod. civ., fonte principale della subordinazione. La formulazione dell’art. 2094 cod. civ. consta di due parti delle quali, la prima indica la subordinazione come collaborazione nell’impresa, la seconda, precisa il significato della prima, indicando nella “dipendenza dall’imprenditore” il connotato essenziale della subordinazione . L’espressione “alle dipendenze”, nel senso del riferimento ad una situazione di dipendenza socio-economica del prestatore nei confronti del creditore – datore di lavoro, dipende dal suo inserimento nell’organizzazione produttiva dell’impresa. Dunque, la collaborazione, definita nella prima espressione dell’art. 2094 cod. civ., sarebbe l’oggetto del contratto, mentre il concetto di subordinazione, espresso nella locuzione “alle dipendenze di…”, ha carattere strumentale rispetto all’oggetto del contratto stesso. Da quanto si è appena detto si evince, che dal punto di vista normativo la collaborazione e la subordinazione coesistono, tanto che si è parlato di “subordinazione collaborativa” . Ma se il concetto di collaborazione è un aspetto pregnante del rapporto di lavoro tutelato in tutte le sue forme dalla normativa costituzionale, risulterebbe di facile applicazione anche alle collaborazioni coordinate e continuative dell’art. 409 n°3 c.p.c.. Ma se si accetta tale premessa, il campo d’indagine presuppone un interrogativo doveroso, e cioè se il concetto di collaborazione sotteso nell’art. 2094 cod. civ. è estendibile alla normativa dell’art. 409 n°3 c.p.c.. Come conciliare la subordinazione del codice civile con il rapporto coordinato e continuativo dell’art. 409 c.p.c.? Affermando che, nelle collaborazioni coordinate e continuative è presente la stessa debolezza contrattuale tipica del lavoro subordinato. Infatti,la debolezza contrattuale è ravvisabile nel rapporto ex art. 409 n°3 c.p.c., in quanto la normativa , pur essendo di natura processuale, estende a tali tipi di lavoratori una norma di carattere sostanziale: il divieto di rinunzie e transazioni ai diritti dei lavoratori, secondo l’art. 2113 cod. civ. . In questo senso, è stata ravvisata da una parte della dottrina l’intenzione del legislatore di tutelare il collaboratore coordinato con un diritto proprio del lavoratore subordinato. La stessa dottrina ravvisa la debolezza contrattuale del prestatore anche nei principi dell’art. 36 Cost. e nella normativa degli artt. 2126 e 2049 cod. civ.. La comunanza dei presupposti non allontana l’ipotesi dell’applicabilità della disciplina del lavoro subordinato alle forme dell’art 409 c.p.c. Per comprendere meglio la vicinanza tra fattispecie concreta, e fattispecie astratta, è necessario sviscerare il rapporto che intercorre tra prestatore d’opera e datore di lavoro fino alla sua reale natura, vale a dire quella di un rapporto di scambio. Aderendo all’idea del rapporto di lavoro come un contratto di scambio che realizzi un “do ut des”, si comprende bene come, tra le parti in causa, il soggetto debole sia il debitore, compatibile con il prestatore d’opera, mentre è altrettanto chiaro che il contraente creditore-datore detenga dalla sua una rilevante forza contrattuale.

Tale, evidente disparità contrattuale delle parti può essere calmierata dalla volontà del contraente debole di non aderire alla fattispecie contrattuale propostagli. Allora, almeno nella fase preliminare, non si manifesta la debolezza contrattuale del prestatore d’opera; la realtà però impone di tener conto delle varie offerte di lavoro alle quali il soggetto si trova di fronte.

L’idea della debolezza contrattuale del collaboratore coordinato risolverebbe il problema dell’estensione a tali rapporti di una disciplina concreta ed efficace, ma l’ipotesi trova degli ostacoli, non solo nell’art. 409 n°3 c.p.c., ma anche nello stesso art. 2094 cod. civ. Infatti, l’idea del contraente debole contenuta nell’art. 2094 cod. civ. è estremamente rigida, mentre, l’art. 409 n°3 c.p.c., lascia spazio a tante altre realtà. Si pensi ad esempio, al caso dell’agente di commercio il cui reddito imponibile sia d’alcune centinaia di migliaia d’euro l’anno: non è ravvisabile una debolezza contrattuale nei riguardi di un eventuale committente inadempiente. In questo caso non è giustificata quella debolezza contrattuale oggetto di tante critiche in dottrina, anche se evidenziata dal combinato disposto degli artt. 2113 cod. civ. e 36 Cost.. La debolezza contrattuale andrebbe valutata caso per caso, lasciando all’autonomia delle parti di giungere alla valutazione delle diverse esigenze in gioco. Comunque, valgono i principi generali del contratto che impongono la buona fede nella determinazione contrattuale e, anche se l’applicazione di tali principi non risolve il problema della disparità contrattuale fra le parti, limita fortemente la possibile intrusione di clausole indesiderate per il contraente debole . In conclusione, l’analisi dell’elemento della “collaborazione” nell’art. processuale in questione, da solo non è sufficiente come presupposto di una eventuale estensione della fattispecie concreta a quella astratta. L’analisi dei dettami Costituzionali e Codicistici necessita d’ulteriori riscontri con le altre locuzioni utilizzate dall’art. 409 n°3 c.p.c .





3.2. Il coordinamento e l’assoggettamento alle direttive del committente



Nella parasubordinazione di cui all’art. 409 n°3 c.p.c. , l’elemento della coordinazione è l’indice rivelatore che la giurisprudenza più di tutti utilizza per ricondurre le fattispecie concrete a quella astratta della normativa processuale. L’elemento della coordinazione tende, sotto il profilo del collegamento funzionale dell’attività lavorativa con l’organizzazione del committente creditore, al perseguimento delle finalità (utilitas) del medesimo . L’indagine sul coordinamento spinge dottrina e giurisprudenza a capire il ruolo che il prestatore coordinato ricopre all’interno dell’organizzazione imprenditoriale nella quale è inserito. Lo studio della dottrina è proteso a comprendere se la coordinazione è ricalcata su quell’inserimento strutturale nell’unità spazio-temporale del comando, tipico del rapporto di subordinazione, oppure ha come base la stessa autonomia sul modo, il tempo e il luogo nello svolgimento dell’opera a favore del committente. In sostanza, è dall’analisi dell’inserimento funzionale che scaturisce l’accostamento del collaboratore coordinato all’una o all’altra forma tipica di rapporto di lavoro.

Innanzi tutto è importante, ai fini della disamina, capire quale sia il fondamento della connessione funzionale nel lavoro subordinato prima, e nell’autonomo poi. È stato affermato che il fondamento della subordinazione è ravvisabile nell’assoggettamento del prestatore al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro, e nel potere direttivo del committente di lavoro sono state distinte tre fasi: la predeterminazione, l’esecuzione e l’eventuale sanzione disciplinare. Nella distinzione di queste tre fasi intercorre una stretta correlazione tra potere direttivo e potere disciplinare. Potrebbe obiettarsi che, il potere disciplinare è che una specificazione del potere direttivo, che rappresenterebbe una caratteristica propria del rapporto di lavoro dipendente. È sicuramente da respingere, se si attribuisce al potere disciplinare la precipua funzione di garantire il regolare svolgimento dell’opera nei limiti d’esecuzione della prestazione.

La correlazione tra potere disciplinare e potere direttivo è di natura gerarchica. Il datore di lavoro è per definizione il “capo”, cui il prestatore deve soggiacere. Le eventuali sanzioni disciplinari sono l’espressioni di quel potere direttivo che l’imprenditore ha nei riguardi del proprio lavoratore. Dunque, se il potere direttivo è nel lavoro subordinato la diretta espressione dell’inserimento funzionale del lavoratore nell’azienda, altrettanto non può dirsi di quelle attività lavorative svolte secondo i dettami dell’art. 2222 cod. civ. Lo stesso articolo esclude espressamente il vincolo della subordinazione, ma ciò non toglie un inserimento funzionale nell’azienda, anche se per il periodo necessario al compimento dell’opera. Non si deve pensare ad un potere assoluto del committente perché ciò non è rinvenibile nel rapporto di lavoro autonomo, anche se il lavoratore dovrà attenersi agli orari di lavoro e ai vincoli che la produzione impone. Da quanto emerge è chiaro che, nella prestazione subordinata il vincolo della collocazione spazio temporale è più penetrante che non nell’altra, dove c’è subordinazione ex art. 2094 cod. civ. il coordinamento non si estrinseca soltanto nella predeterminazione dei confini spazio-temporali per cosi dire esterni alla prestazione, cioè, del luogo o del periodo (nell’arco della giornata, della settimana o dell’anno) entro cui la prestazione deve essere svolta, ma anche nella facoltà dell’imprenditore d’impartire, di volta in volta, disposizioni circa la collocazione nei singoli segmenti della prestazione, in funzione di una loro più stretta integrazione con il resto dell’organizzazione aziendale. Quindi, oggetto della prestazione non è soltanto il tempo della stessa complessivamente inteso, ma sono anche i tempi dei singoli elementi che la compongono. Conseguentemente le disposizioni coordinatrici non possono essere contenute in un eventuale programma originario : il contratto di lavoro subordinato per questo attribuisce all’imprenditore una prerogativa differenziale rispetto a quelle derivanti dal contratto di collaborazione autonoma, costituita dal potere d’impartire in qualsiasi momento al prestatore direttive circa le modalità di svolgimento dell’attività lavorativa. Quando dal coordinamento spazio-temporale esterno si passa al coordinamento interno, operato, di volta in volta, dall’imprenditore in riferimento ai singoli segmenti della prestazione e alle sue modalità di svolgimento, in questo passaggio si manifesta quella particolare connotazione del rapporto, cioè l’assoggettamento della prestazione alla direzione . Il coordinamento interno così inteso, è la manifestazione del potere direttivo dell’imprenditore. Di tale potere viene cosi in rilievo una caratteristica peculiare, e cioè, tale potere non è limitato alla predeterminazione delle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa, ma consente al suo titolare d’intervenire in qualsiasi momento su di essa. Nel rapporto di lavoro subordinato il potere direttivo del datore può essere esercitato in modo continuativo. Il coordinamento spazio-temporale esterno può essere considerato come elemento comune a prestazioni lavorative di tutti i tipi, anche alle collaborazioni coordinate dell’art. 409 n°3 c.p.c. Mentre il coordinamento spazio-temporale interno, inteso come assoggettamento della prestazione al potere direttivo dell’imprenditore d’impartire, di volta in volta, disposizioni circa la distribuzione e la dislocazione di singoli segmenti della prestazione stessa, individua il concetto più ristretto del lavoro subordinato.



3.3. La continuità, la collocazione temporale dell’attività lavorativa e la retribuzione come mezzo conoscitivo della prestazione



La continuità è il più consistente, ma non per questo il meno controverso tra gli indici di riconduzione adottati dalla giurisprudenza e dalla dottrina.

In effetti, è difficile dire cosa sia la continuità in senso tecnico-giuridico. La dottrina distingue tra continuità materiale, rilevante sul piano del concreto svolgimento della prestazione, e continuità giuridica, rilevabile sul piano del vincolo contrattuale. Nel primo senso si parla di “illimitata divisibilità della prestazione ratione temporis” , nel secondo senso di “ persistenza nel tempo dell’obbligo giuridico”, ovvero di elemento concretante la disponibilità del lavoratore all’impresa altrui. In quest’ultimo caso la continuità entrerebbe a far parte della causa del contratto. Comunque, ciò che rileva è la continuità giuridica, in altre parole la persistenza nel tempo dell’obbligo di mantenere a disposizione del datore di lavoro la propria energia lavorativa. Deve ritenersi ardua la sussistenza della continuità, quando la reiterazione delle prestazioni avvenga con scansioni temporali troppo lasche e meramente occasionali. Sull’ammissibilità o meno dei contratti d’opera ad esecuzione di un unico lavoro, le posizioni della dottrina non sono univoche; c’è infatti, chi ritiene che vadano esclusi dall’area della parasubordinazione quei rapporti ad esecuzione istantanea, ancorché prolungata nel tempo, perché ciò sarebbe incompatibile col soddisfacimento di un interesse durevole delle parti. Un’altra tesi è quella secondo cui, può rientrare nell’ambito della parasubordinazione anche l’esecuzione di un unica opera, qualora l’attività necessaria per l’adempimento richieda un certo lasso di tempo. Nel far sì che la prestazione continuativa assuma i tratti specifici del lavoro subordinato, è necessario che sia dispiegata non soltanto su un piano meramente cronologico ma che piuttosto risulti funzionalmente coordinata come pluralità di prestazioni e di opere, con riguardo all’interesse duraturo del committente-creditore. Cruciale dunque, è l’individuazione del carattere continuativo della prestazione lavorativa, che può costituire l’elemento necessario, ma non sufficiente, all’individuazione della qualificazione della fattispecie concreta del rapporto di lavoro dipendente o alla determinazione del rapporto di collaborazione dell’art. 409 n°9 c.p.c.. Un aspetto decisivo per la qualificazione della prestazione come continuativa può essere costituito dalla pattuizione di un vincolo, circa l’orario d’inizio e l’orario finale entro il quale la prestazione deve svolgersi; tale pattuizione indica il risultato utile della prestazione nell’attività lavorativa in quanto tale, e non nell’opus. Tuttavia, deve essere ben chiaro il significato di vincolo d’orario: non si tratta necessariamente di un vincolo inerente alla collaborazione nel tempo dell’attività lavorativa, ma di un vincolo inerente alla sua estensione nel tempo. Infatti, sarebbe del tutto compatibile un’obbligazione avente per oggetto in opus la fissazione di un termine, od anche di uno o più lassi di tempo all’interno dei quali la prestazione debba essere eseguita. Sarebbe logicamente incompatibile con la natura di quell’obbligazione, la decisione di una durata obbligatoria dell’attività necessaria alla fissazione dell’opus. Nella locatio operis non è la prestazione ad essere determinata in funzione del tempo, ma il tempo ad essere determinato in funzione della prestazione. Particolare attenzione merita poi, la possibilità di trarre argomento, al fine della qualificazione della prestazione lavorativa, dalle modalità pattuite per il pagamento della relativa retribuzione. In effetti, la determinazione quantitativa in termini di durata della prestazione lavorativa è strettamente funzionale alla commisurazione della controprestazione retributiva, anche se notoriamente la rigida applicazione del principio di corrispettività ha subito non indifferenti attenuazioni in relazione alle esigenze di tutela, non solo della persona fisica del lavoratore, ma anche della sua personalità con riferimento a situazioni e valori non tutelati adeguatamente per effetto della semplice regolamentazione legale o contrattuale della prestazione di lavoro. Infatti, l’emersione d’interessi individuali e collettivi che il lavoratore tende a soddisfare, devono realizzarsi all’interno della dialettica tra tempo di lavoro- tempo libero. A monte di ogni altra considerazione sta, comunque, il rilievo dell’ importanza attribuita dallo stesso costituente al nesso di corrispettività fra retribuzione e prestazione di lavoro, nesso che per quanto riguarda la quantità di lavoro, pur non essendo espressamente riferita alla durata della stessa, deve normalmente parametrarsi a tali elementi; tutto ciò, sulla scorta delle evidenti riflessioni che scaturiscono dalla collocazione dei principi in materia di retribuzione, non casualmente inserti in quello stesso art. 36 Cost. che nel 2°e nel 3° comma fissa i criteri generali della disciplina legale dell’orario di lavoro.

Dunque, appare fuori discussione che l’indicazione dell’art. 36 Cost. propone una relazione cosi sintetizzabile tra la retribuzione, la quantità di lavoro e la durata della prestazione.

Così com’è prospettata, l’indicazione dell’art. 36 Cost. è ravvisabile anche nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa ex art 409 n°3 c.p.c., anche ad esempio con la pattuizione di una retribuzione forfetaria. Il corrispettivo di una prestazione continuativa può essere costituito da una prestazione istantanea già determinata nella sua misura complessiva. Non è vero però l’inverso, e cioè non può affermarsi una generale e assoluta indifferenza reciproca tra forma della retribuzione e carattere della prestazione lavorativa . Quando il corrispettivo è pattuito in merito alla quantità del lavoro prestato, e tale quantità è misurata in termini di tempo, non può che desumersene l’individuazione dell’attività lavorativa come oggetto della prestazione,infatti, il tempo assurge ad elemento causale essenziale del contratto. Si danno numerosi casi in cui la retribuzione è pattuita in stretto riferimento alla quantità di lavoro prestato, e tale quantità è misurata in termini di tempo, ma l’esistenza stessa dell’obbligazione retributiva è posta in rapporto con il raggiungimento di un risultato ulteriore (l’opera) rispetto all’attività lavorativa poiché tale. L’elemento tempo assume nella struttura del rapporto la funzione di misura quantitativa dell’attività lavorativa, ma, quest’ultima non acquista il carattere della divisibilità in ragione del tempo e tanto meno della continuità, perché, se il risultato non è raggiunto, la prestazione non può considerarsi avvenuta nemmeno in parte. Infatti, si può pensare al configurarsi di una prestazione d’esecuzione a carattere continuativo, nel caso in cui il prestatore sia assunto per una serie di adempimenti da effettuarsi in un arco di tempo determinato.

In conclusione, la forma della retribuzione a tempo può costituire l’indice sicuro del carattere continuativo della prestazione lavorativa, ma solo quando le singole rate della retribuzione siano di volta in volta corrisposte al prestatore anche nel corso dello svolgimento dell’attività lavorativa, o quando le parti abbiano inteso assumere il tempo come unico criterio di determinazione dell’obbligo retributivo.





3.4 Il carattere prevalentemente personale della prestazione.



È necessario ora comprendere e individuare il valore dell’ultimo requisito di cui all’art. 409 n°3 c.p.c., vale a dire il carattere prevalentemente personale della prestazione lavorativa. L’analisi del requisito sposta di molto il baricentro della trattazione verso il contratto d’opera dell’art. 2222 cod. civ.. La prestazione lavorativa che costituisce l’oggetto di un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, coincide con l’oggetto che realizza un contratto d’opera: nell’un caso o nell’altro sussiste l’obbligo di compiere, previo corrispettivo, un’opera o un servizio con prevalenza del lavoro personale.

Ma, non è l’unica somiglianza, perché una formula sostanzialmente corrispondente è contenuta nell’art 1665 cod. civ., che fornisce la nozione di contratto d’appalto, ove si prevede che l’appaltatore si obblighi al compimento di un’opera o di un servizio per un corrispettivo in denaro. Nell’uno e nell’altro caso, la prestazione è svolta con l’assunzione di un rischio economico, perché, con riferimento ai due modelli contrattuali, oggetto della prestazione è un risultato.

Il prestatore d’opera come anche l’appaltatore, assumono nei confronti del committente una posizione d’autonomia. L’art. 1665 cod. civ. rileva che è compito dell’appaltatore organizzare i mezzi necessari alla realizzazione dell’opera, mentre nel contratto d’opera dell’art 2222 cod. civ. è il prestatore che pone in essere l’attività lavorativa senza vincolo di subordinazione. Differenti sono per contro le modalità di produzione della prestazione: nell’un caso si fa riferimento all’organizzazione dei mezzi necessari, nell’altro all’utilizzazione, con carattere prevalente, di lavoro personale. Appaltatore e prestatore d’opera pertanto, svolgono a proprio rischio e autonomamente l’attività produttiva diretta al conseguimento di un determinato risultato (opera o servizio). Ciò che contraddistingue i contratti sono le modalità della produzione, nell’ipotesi di contratto d’appalto, l’appaltatore si avvale dell’organizzazione propria di una medio - piccola impresa, mentre, nell’ipotesi del contratto d’opera il prestatore si avvale dell’organizzazione propria di una piccola impresa, oppure esclusivamente del lavoro personale.

Il legislatore ha, quindi, equiparato sotto il profilo della disciplina in esame, l’ipotesi dell’utilizzo di un’organizzazione tipica della piccola impresa a quella dell’esclusivo lavoro personale. Almeno sotto il profilo soggettivo può rilevarsi che l’appaltatore è qualificabile come imprenditore ordinario, mentre, il prestatore d’opera come piccolo imprenditore, secondo i casi, qualora si ritenga che chi produce utilizzando il lavoro personale non rientri nella categoria degli imprenditori.

Nell’ambito dell’analisi dei tratti distintivi dei tipi contrattuali si è osservato al proposito che, con riferimento ai dati attinenti ai soggetti contraenti, nell’ambito del lavoro autonomo, il codice nettamente distingue due tipi, l’appalto e il contratto d’opera, a seconda che l’opera o il servizio sia compiuto mediante un’organizzazione ad impresa, o invece con lavoro prevalentemente personale dell’artefice e dei suoi familiari; due tipi, quindi, che si differenziano perché una delle parti è, o non è, organizzata ad impresa. Da ciò consegue che, la rilevanza della qualità d’imprenditore di una delle parti, come tratto distintivo, e, quindi, elemento qualificante il tipo, non è estraneo al nostro ordinamento. La dottrina e la giurisprudenza concordano nell’individuare la linea di demarcazione tra i due modelli contrattuali, con riferimento alle modalità di svolgimento dell’attività produttiva e quindi alla qualificazione delle parti. Pertanto, una persona giuridica o un’organizzazione non personificata, non possono essere parte di un contratto d’opera, in quanto, il risultato dedotto in contratto verrà raggiunto mediante un’organizzazione di beni e servizi, e quindi in appalto. Dall’analisi del contratto d’opera emerge che, il prestatore ha l’obbligo di eseguire l’opera o il servizio con prevalente lavoro personale, il cui elemento è tipico, anche, delle attività di collaborazione dettate dall’art. 409 n°3 c.p.c.





4. I rapporti di collaborazione coordinata e continuativa con le fattispecie di lavoro subordinato e lavoro autonomo. Primo approccio alle problematiche irrisolte dal D. Lgs. 276/2003



Dall’analisi degli indici che costituiscono il dettato processuale dell’art. 409 n°3 c.p.c, si evince l’imprevedibile potenzialità espansiva che la norma contiene. La potenzialità espansiva tende ad attrarre, seppur parzialmente, tratti della disciplina del lavoro subordinato e autonomo a situazioni,a prima vista, non compatibili alla fattispecie processuale considerata. La constatazione nasce dal fatto che, i rapporti assunti dal legislatore hanno in comune con il lavoro subordinato, la sostanziale dipendenza economica dall’imprenditore, l’eterodeterminazione, la continuità, la sua personalità e la sua inerenza al ciclo produttivo dell’impresa. Tali dettati hanno la stessa connotazione del lavoro dipendente, le medesime manifestazioni esteriori e lo stesso apprezzamento nell’ambiente sociale circostante. Tuttavia, non possono essere qualificati subordinati, perché non rientrano in quella fattispecie astratta identificata dal legislatore.

La ricerca affannosa della dottrina e della giurisprudenza volta ad identificare in una fattispecie concreta i rapporti di cui all’art. 409 n°3 c.p.c., mette in crisi il metodo tipologico, perché è indubbio che tipologicamente il lavoro parasubordinato è simile al rapporto di lavoro dipendente, ma non è riconducibile alla fattispecie dell’art. 2094 cod. civ. .Tuttavia, è altrettanto difficile sostenere che il legislatore abbia voluto lasciare via libera all’apprezzamento caso per caso dell’interprete, “fidando nella tipicità e riconducibilità sociale delle pur multiformi situazioni oggetto della particolare attenzione legislativa”. Dunque, si riscopre che l’uso da parte della giurisprudenza di un complesso d’indici rivelatori della subordinazione è efficace ad evitare generalizzazioni di principio, e anche a non operare un raffronto tra fattispecie astratta e fattispecie concreta ai fini della delimitazione del lavoro dipendente. Tuttavia, non si può, e non si deve negare l’autonomia concettuale della fattispecie astratta delineata dal legislatore. È inevitabile però, che l’analisi degli indici rivelatori ex art. 409 n°3 c.p.c. sposti di continuo l’asse del baricentro ora verso l’una, ora verso l’altra fattispecie concreta. L’uscita dagli schemi concreti vede il lavoro parasubordinato come tertium genus, come orma alternativa, o secondo alcuni come lavoro senza aggettivi . L’idea del contratto di lavoro senza aggettivi o sans phrase, il cui oggetto è dedotto in obbligazioni di facere., integrate in un’attività economica al di fuori della scelta tradizionale tra subordinazione e autonomia. I progettati testi legislativi alludono ad una nuova categoria di contratto, capace di attrarre un’intera famiglia di negozi, il cui comune denominatore è rappresentato dall’essere strumentale all’integrazione di una prestazione di facere nei processi produttivi dell’impresa. La prospettiva di lavoro senza aggettivi sposta il centro gravitazionale dal lavoro dipendente al lavoro tout court, e fa della subordinazione una species di un genus di forte capacità operativa. Entrambe le proposte sono volte a riorganizzare le tutele, estendendole in maniera differente a forme di locatio operis, le quali s’inscrivono in una logica d’integrazione, in un servizio organizzato cui il prestatore aderisce. In realtà, nella proposta combinata, di d’Alleva e d’Antona, la crisi della subordinazione non conduce all’invenzione di una nuova fattispecie, ma alla ricomposizione e riaggregazione delle species esistenti. La centralità di una nuova tipologia, ossia di un tertium genus, è al centro della proposta di una parte della dottrina. La tendenza evolutiva del sistema giuslavoristico è esaltata sino a produrre una vera e propria rottura del sistema stesso, da cui, consegue la costruzione di un nuovo modello: il lavoro coordinato.

Ancora una volta, la coordinazione del prestatore d’opera è l’aspetto che accende lo stato di conflitto del lavoro ex art. 409 n°3 c.p.c. con le fattispecie tradizionali. Il coordinamento ipotizzato, secondo tale dottrina, deve essere inteso come modello alternativo di un programma di lavoro, che le parti al momento della stipulazione del contratto non hanno determinato, poiché hanno rinviato allo svolgimento del rapporto la determinazione delle caratteristiche volte al raggiungimento dell’interesse del creditore. Tuttavia, anche tale schema sembra riprodurre quel processo di continuo e graduale potere di conformazione spettante al datore di lavoro nel rapporto di lavoro dipendente. Invece, nel pensiero di questa dottrina, il prestatore non può essere soggetto a eterodirezione. A quanto sembra, è difficile uscire dall’impasse, lo stato di conflitto con i due rapporti non si risolve con l’uscita dagli schemi tipici, e la conseguente costruzione di un tertium genus di rapporto lavorativo. Infatti, consapevole delle contraddizioni e forzature, si avvede, ben presto, uno dei fautori della proposta alternativa, e in un saggio successivo afferma che:

“Allo stato dell’evoluzione delle tecniche d’organizzazione d’impresa, è quanto dubbio che simili forme di attività lavorativa possano essere traslocate nel tertium genus, almeno fino a quando permangono, e sia pure in modo attenuato, tracce evidenti di un potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro, e di un modello di rigida integrazione spaziale e temporale della prestazione lavorativa”.

Tuttavia, consapevole delle contraddizioni e forzature che, appunto, da sempre hanno caratterizzato la scelta della dottrina, ora verso un tipo ora verso l’altro, il Legislatore del 2003 interviene sulla natura delle Collaborazioni Coordinate e Continuative dettandone una disciplina, che ai sensi del 1° comma dell’art. 61 del D.Lgs. n. 276/03 stabilisce che: “i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, a carattere prevalentemente personale e senza vincolo di subordinazione, di cui all’art. 409 comma 3 c.p.c., devono essere riconducibili ad uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con l’organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione dell’attività lavorativa”.

Il tenore letterale della norma non lascia spazio a dubbi: il lavoro a progetto s’identifica nelle co.co.co. di cui all’art. 409 comma 3 c.p.c., delle quali delimita il requisito del coordinamento.

In altri termini rispetto al passato, oggi il legislatore specifica restrittivamente il rapporto causale fra il risultato della prestazione resa dal collaboratore e l’interesse del committente, che non può più coincidere genericamente con l’attività istituzionale da questi svolta, ma deve essere preventivamente svolta e circoscritta a progetti o fasi di lavoro.

L’interesse specifico individuato dal committente comporta di conseguenza l’individuazione dell’attività richiesta al collaboratore, e cioè dell’oggetto del contratto, esplicitamente inquadrata dall’art. 61, 1 comma D.Lgs 276/03 in termini di risultato, il tenore letterale della disposizione induce a confermare la qualificazione delle collaborazioni coordinate e continuative in esame, come obbligazione di risultato, già proposta in dottrina, nonostante la critica mossa alla distinzione con le obbligazioni di mezzi in riferimento al lavoro subordinato.

Una volta che il committente, abbia determinato il progetto, il programma, o la fase del lavoro cui ricondurre la collaborazione, l’esecuzione dell’attività, o meglio, il conseguimento del risultato richiesto è rimesso alla piena ed autonoma gestione da parte del collaboratore, che avrà come unico limite quello del “coordinamento con l’organizzazione del committente”. Dunque, non costituisce elemento qualificante il lavoro a progetto, il tempo impiegato per l’esecuzione dell’attività: il fattore temporale è qui riferito non già alla durata del contratto necessariamente determinata, o determinabile, (art. 62 comma 1 lett. a D.Lgs. 276/03) bensì all’esecuzione della prestazione con un evidente riferimento all’eventuale osservanza di un orario di lavoro da parte del collaboratore.

Il legislatore, pertanto, sembra oggi esplicitare quel coordinamento fra risultato della prestazione del collaboratore e interesse durevole del committente, provvedendo a delimitarlo con un intervento che, allora, impone una precisazione. Infatti, il chiarimento attiene proprio alla rilevanza decisiva attribuita dal legislatore al requisito della riconducibilità a programmi, progetti o fasi del lavoro: essa emerge inequivocabilmente dalla lettera dell’art. 69 D.Lgs. 276/03, laddove il legislatore afferma che “i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa decisi senza aver individuato previamente il requisito funzionale del progetto, sono da considerarsi rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto”. Ciò lascia spazio ad un unica interpretazione, e cioè “la mancanza genetica del programma, del progetto o della fase di lavoro al quale far discendere la prestazione lavorativa del prestatore , sembra imporre al giudice del lavoro, la conversione automatica in contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, indipendentemente, dai requisiti dai requisiti sanciti complessivamente nell’art. 409 comma 3 c.p.c., sui quali, seguendo tale impostazione, non dovrebbe esserci l’intervento del magistrato chiamato a rispondere al petitum, rivolto ad indagare la vera natura del rapporto di lavoro intercorrente.

Il rischio, dunque, a cui si va incontro, è quello di ricondurre la nozione di collaborazione coordinata e continuativa a progetto (o lavoro a progetto, che dir si voglia) nell’alveo dei rapporti di lavoro subordinato, tanto che, provocatoriamente, si potrebbe ipotizzare il lavoro a progetto, come una fattispecie di lavoro subordinato, non più in bilico tra le prestazioni di lavoro meramente subordinate e quelle prettamente autonome.

La forzatura, evidentemente, impone la considerazione che lo stesso legislatore, nell’intento di regolare il dilagante abuso delle collaborazioni coordinate e continuative, utili a dissimulare, in alcuni casi, i rapporti di lavoro subordinato, abbia voluto mettere un freno, non tenendo conto degli effetti collaterali, a cui questa nuova tipologia di lavoro conduce.

Infatti, il fondamento legale, a cui soprintende l’esistenza del progetto, del programma o della fase di esso, distrae l’indagine del Giudice di merito dalla considerazione vera del rapporto, tendente a ricostruire la fattispecie simulata, oltre il semplice nomen juris attribuito dalle parti, sulla base di tutti gli elementi emersi dall’indagine, potendo concludere che si tratti di lavoro subordinato. Ciò , induce a pensare che se guarda il lavoro a progetto, sotto l’elemento della coordinazione, ad una fattispecie chiusa di rapporto di lavoro, a differenza di quella nozione di collaborazione coordinata e continuativa, che la vedeva inquadrata nell’area del lavoro parasubordinato , tanto caro ad una parte della dottrina, che dal 1973 ridefinendo il processo del lavoro, ha evidenziato all’art. 409 comma 3 c.p.c., quella norma di diritto strettamente processuale, che unitamente alla riforma del sistema pensionistico del “95 , ha contribuito ad ingenerare in una parte della dottrina, la convinzione che si era in presenza di una prestazione lavorativa, vicina e per certi versi contigua alla fattispecie più ampia, dettata dall’art. 2222 cod. civ.

Il coordinamento chiuso, invece, impone la definizione di un progetto, al fine di integrare l’attività del collaboratore con l organizzazione del committente.



5. Il lavoro a progetto come nuovo tipo contrattuale: ridefinizione del sistema rispetto agli altri tipi contrattuali fondamentali nel diritto del lavoro.



Una delle prime questioni problematiche suscitate dalla nuova disciplina del lavoro a progetto riguarda la dicotomia teorica sviluppatasi tra la considerazione del lavoro a progetto come una riproposizione del “lavoro parasubordinato” o del “lavoro coordinato” ovvero come un nuovo “tipo contrattuale” .

Le implicazioni di queste diverse interpretazioni attengono sostanzialmente al fatto che secondo il primo filone il lavoro a progetto si proporrebbe in una sorta di continuità logica con la vecchia disciplina rappresentando quindi anch’esso quel ruolo di contenitore di situazioni del tutto eterogenee che era proprio delle vecchie co.co.co..

La seconda interpretazione, invece, partendo dalla ratio legis sottesa alla normativa in esame afferma che il lavoro a progetto rappresenta un vero e proprio tipo contrattuale nuovo, arrivando anzi a sostenere la possibilità di individuare un quartum genus rappresentato appunto dalle collaborazioni che restano escluse dalla disciplina in esame (il lavoro parasubordinato).

Una attenta analisi dell’art. 61 D. Lgs. 276/2003 sembra portare alla conclusione della creazione di un nuovo tipo contrattuale , anche perché se così non fosse da un lato verrebbe frustrata quella volontà di rottura col passato (almeno a livello di disciplina) insita nel ruolo sistematico del lavoro a progetto, ma dall’altro lato sarebbe concettualmente opera ardua correlare il lavoro a progetto come “contenitore” di situazioni varie sia con le esclusioni operate al comma primo e terzo dell’art. 61 (alle quali si è peraltro giunti in modo molto faticoso) sia con l’ibrida figura del lavoro occasionale (configurato nel comma secondo dell’art. 61).

Ma se quindi pare più corretto ricostruire il lavoro a progetto come nuova fattispecie tipica, in contrapposizione alla nozione di parasubordinazione che si desumeva (ma in verità si desume ancora attualmente) dall’art. 409 n. 3 c.p.c. (norma peraltro che come si dirà aveva ed ha natura processuale e non sostanziale ) e che rappresentava una fattispecie aperta, comprensiva di una serie di situazioni eterogenee, occorre tentare una nuova ricostruzione del sistema delle principali fattispecie contrattuali tipiche ed atipiche nel diritto del lavoro.

Per una corretta ricostruzione della problematica deve paragonarsi il sistema ante e post D. Lgs. 276/2003.

Tradizionalmente, le norme di riferimento sono rappresentate dall’art. 2094 c.c. (lavoro subordinato), dall’art. 2222 c.c. (lavoro autonomo ed in particolare contratto d’opera) alle quali, in un tempo più recente, si è andato ad aggiungere l’art. 409 n. 3 c.p.c. (lavoro parasubordinato).

Le relazioni che legavano queste tre distinte figure di rapporto di lavoro erano sufficientemente sedimentate, nel senso che la costruzione “inclusiva” dell’art. 2094 c.c. induceva alla qualificazione di un determinato rapporto come contratto di lavoro subordinato, solo allorquando fossero presenti tutti i requisiti desumibili dallo stesso art. 2094 c.c. e puntualmente individuati da dottrina e giurisprudenza.

Qualora il rapporto non potesse essere inquadrato nel lavoro subordinato, per mancanza di uno o più dei requisiti tipici, soccorrevano le altre due norme citate, formulate entrambe in maniera aperta (e quindi non inclusive), ed in un certo senso contigue l’una all’altra. Questo perché il punto di discrimine tra lavoro autonomo e lavoro subordinato era rappresentato dalla continuità , e/o dal coordinamento e pertanto vi era un “altissimo grado di osmosi” tra le due fattispecie.

Riepilogando la situazione ante riforma vedeva in primo piano la fattispecie chiusa ed inclusiva del lavoro subordinato, mentre sullo sfondo, con funzione per così dire residuale e di chiusura le due fattispecie del lavoro autonomo-parasubordianto .

Lo scenario attuale, successivo alla riforma, sembra indicare un nuovo sistema di equilibri dovuto in larga parte alla nuova formulazione introdotta all’art. 61 che implica, come detto, una nuova fattispecie tipica caratterizzata da forti indici di inclusività.

Attualmente le fattispecie legalmente tipizzate e sostanzialmente chiuse sono due: il lavoro subordinato ex art. 2094 c.c. ed il lavoro a progetto ex art 61¹ D. Lgs. 276/2003. Non può più affermarsi che ciò che non è lavoro subordinato rientra sicuramente nell’alternativa lavoro autonomo-parasubordinato.

Ne deriva quindi che il lavoro a progetto non ha più quella funzione di valvola di sfogo che precedentemente era propria delle co.co.co..

A questo quadro deve poi aggiungersi che l’art. 61 D. Lgs. 276/2003 al secondo comma tipizza anche quella tradizionale e volutamente labile nozione di lavoro occasionale . Si utilizzano due criteri misti e concorrenti in forza dei quali sono prestazioni occasionali “i rapporti di durata complessiva non superiore a trenta giorni nel corso dell’anno solare con lo stesso committente, salvo che il compenso percepito nel medesimo anno solare non sia superiore a 5 mila euro , nel qual caso trovano applicazione le disposizioni contenute nel presente capo”. Aldilà delle complessa compatibilità di tale nozione con quella già esistente a fini tributari , pare doversi affermare che al lavoro occasionale si applicherà la scarna disciplina delle vecchie co.co.co. , a meno che non sia configurabile un diverso rapporto.

Si è detto che in questo modo si realizzerebbe quel continuum di schemi negoziali graduati secondo l’intensità del vincolo che connota la collaborazione. In un progressione verticale, partendo dal basso, si avrebbe quindi il lavoro occasionale, per poi passare al lavoro a progetto ed infine terminare con il lavoro subordinato nelle sue varie forme, ivi compre quelle ad orario ridotto, modulato e flessibile.

Ma, se questo rappresenta l’obiettivo del legislatore, peraltro basatosi sul sistema di graduazione delle tutele insito nel c.d. Statuto dei Lavori , deve notarsi come la realtà direttamente desumibile dalla normativa in esame sia di un sistema esposto a forti pericoli di “ingessatura”, con relativo rischio di aumento del lavoro nero o irregolare.

A ben vedere il nuovo sistema prevede, invece, ben due fattispecie sicuramente “chiuse” (lavoro subordinato, lavoro a progetto), mentre rimane con formulazione aperta, ma giammai residuale o per meglio dire omnicomprensiva dei rapporti esclusi dalle prime due tipologie considerate, il lavoro autonomo – contratto d’opera, il quale peraltro risulta in parte anch’esso tipizzato nella forma del lavoro occasionale. Se poi si aggiunge la possibile spirale perversa che può instaurarsi, allorquando una prestazione occasionale “sfori” (anche di un solo euro o di un solo giorno) uno dei due rigidi limiti di cui all’art. 61 comma secondo determinando l’applicazione della disciplina del lavoro a progetto ma proprio in conseguenza dell’applicazione dell’art. 69 si determini la trasformazione in contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, si capisce ictu oculi i rischi dell’operazione tipizzatrice effettuata dal D. Lgs. 276/2003.

La valvola di sfogo del sistema, rappresentata dal lavoro parasubordinato come grande area residuale, sembra essere definitivamente compromessa, tanto che si è evidenziato che, tenendo conto del divieto di rapporti di co.co.co. atipici di cui all’art. 69 con contestuale “conversione” automatica ab origine della collaborazione senza progetto in contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, il sistema talmente capovolto da utilizzare come “fattispecie residuale” il tipo storicamente più risalente: il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.





6. Nozione di contratto di lavoro a progetto.



Preliminarmente occorre chiarire quale sia l’effettiva nozione del contratto di lavoro a progetto ed in particolare si devono individuare le relazioni che legano il nuovo tipo in esame con le vecchie (ma in realtà ancora molto attuali, come si specificherà poi) collaborazioni coordinate e continuative.

L’art. 61¹ D. Lgs. 276/2003 afferma che “ferma restando la disciplina per gli agenti e i rappresentanti di commercio, i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente personali e senza vincolo di subordinazione, di cui all’art. 409 n. 3 del codice di procedura civile devono essere riconducibili ad uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con la organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione della attività lavorativa”.

Ad una prima analisi risulta ictu oculi, che il lavoro a progetto tende ad identificarsi con le collaborazioni coordinate e continuative old style, delle quali deve “incarnare” tutti i requisiti (ovvero coordinazione, continuatività, prevalente personalità della prestazione ed insussistenza del vincolo si subordinazione) con l’aggiunta di un progetto o programma (pre)determinato dal committente.

Una più attenta ponderazione della formula usata dal legislatore induce, però, ad alcune ulteriori considerazioni.

In primis, è molto dubbio l’utilizzazione nell’art. 61 dello strumento del richiamo ad una norma del Codice di Procedura Civile (nella specie l’art. 409 n. 3) per definire dal punto di vista sostanziale un nuovo schema contrattuale. Infatti, è notorio come l’art. 409 c.p.c., così come modificato dalla l. 533/1973 , lungi dall’avere un contenuto definitorio per la disciplina sostanziale, si limita ad individuare le controversie devolute al Giudice del lavoro. Ne deriva pertanto l’inopportunità della tralatizia scelta legislativa.

In secondo luogo, deve sgombrarsi il campo dalla possibilità, peraltro non remota, che il lavoro a progetto venga inteso come un contratto di collaborazione coordinata e continuativa con “attaccato” un progetto. Questa interpretazione finirebbe, infatti, per vanificare totalmente l’intento “contenitivo” del quale si è già detto, ed è quindi da respingere.

La novità vera del lavoro a progetto è da individuarsi nel fatto che il committente deve predisporre il progetto rispetto al quale il collaboratore mantiene una propria autonomia gestionale in funzione del risultato.

Sul punto, parte della dottrina ha sostenuto che con il progetto il committente debba individuare ex ante le modalità e le condizioni con le quali deve essere raggiunto il risultato, ma si è giustamente obiettato che le modalità di esecuzione possono essere inserite in una apposita clausola contrattuale (art. 62 lett. d).

Altra dottrina, in maniera molto suggestiva, propone una interpretazione del progetto come sintesi di tutti i requisiti atti ad identificare il lavoro a progetto, in tal modo tentando di superare la questione del progetto come indice autonomo, e magari gerarchicamente sovraordinato rispetto ai tradizionali criteri della continuità coordinamento e personalità della prestazione.

Tale costruzione, seppur ha il merito ha di rendere il nuovo tipo contrattuale immune da (ben fondate) eccezioni di incostituzionalità per violazione del principio di “indisponibilità del tipo lavoro subordinato” sancito dalla Consulta , si espone ad una duplice critica desumibile dal dato testuale degli art. 61¹ e 69². Infatti, la visione del progetto come una sorta di “super indice” mal si concilia con l’espresso richiamo degli altri indici tipici della parasubordinazione effettuato dal primo comma dell’art. 61, ma soprattutto non si capisce come possa il giudice accertare l’instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato pur in presenza del progetto. Infine non deve dimenticarsi che nella Circolare del Ministero del Lavoro si precisa che, la presunzione di cui all’art. 69¹ introduce una presunzione iuris tantum, la quale pertanto ammetterebbe la prova contraria consistente proprio nella dimostrazione dell’esistenza di indici di autonomia (molto vicini agli indici del parasubordinazione) indipendenti dall’esistenza del progetto.

Sembra pertanto corretto affermare che il progetto penetra all’interno del contratto di lavoro di cui all’art. 61 D. Lgs 276/2003, conformando la prestazione dovuta dal collaboratore, da intendersi come prestazione diretta al conseguimento di un risultato specifico. E’ proprio la descrizione, sufficientemente puntuale di tale risultato specifico, ad essere il contenuto del progetto, ed è quindi questo il significato da attribuire “all’obbligo di riconduzione” che grava sul committente che non voglia incorrere nelle pesanti sanzioni previste dalla legge.













7. Le esclusioni e la disciplina transitoria







L’art. 61 D. Lgs. 276/2003 dopo aver definito le nuove collaborazioni al comma primo, al comma secondo introduce la prima esclusione generale rappresentata dal lavoro occasionale, ed infine, al terzo comma, elenca una serie di rapporti specifici che sono anch’essi esclusi dal campo di applicazione della nuova disciplina.

Una valutazione generale sembra anzitutto indurre a ritenere che, nei campi esclusi, persista ancora la possibilità di stipulare rapporti di collaborazione coordinata e continuativa a carattere prevalentemente personale, stante la minore possibilità di abusi perpetrabili nei rapporti considerati.

Sono quindi espressamente esclusi:

a) Gli agenti e rappresentanti di commercio, esclusi dal primo comma dell’art. 61. Si tratta della più antica ed in un certo senso classica ipotesi di collaborazioni coordinate e continuative, che vanno pertanto a formare una “una fattispecie del tutto autonoma e distaccata di parasubordinazione, acquistando o meglio conservando una propria autonomia speciale” .

b) Le “professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi” esistenti all’entrata in vigore del D. Lgs. 276. Si tratta di una esclusione giustificata sia dalla incompatibilità intrinseca di tali prestazioni con i rigidi schemi del lavoro a progetto, sia dalla forza contrattuale di tali soggetti presumibilmente sufficiente a controbilanciare i poteri del datore di lavoro . Si ritiene pertanto applicabile in tali casi l’art. 2113 c.c. e le norme sul processo del lavoro.

c) I “componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società e i partecipanti a collegi e commissioni”. Anche tale esclusione pare giustificata dal minor rischio di simulazioni ed elusioni , ma un forte dubbio deriva dal raffronto del testo dell’art. 61 comma terzo D.Lgs. 276/2003 con l’art. 47 del TUIR. Infatti tra le categorie di parasubordinati espressamente previste dall’art. 47 cit. vi sono tutta una serie di rapporti che non vengono riproposti tra le esclusioni di cui al terzo comma dell’art. 61 , tra i quali degni di rilevanza sono, ad esempio, “i collaboratori a giornali, riviste, enciclopedie e simili”. La giustificazione delle mancata previsione è difficilmente rintracciabile a meno che, come già evidenziato, non si riproponga la differenziazione basata sulla maggiore o minore potenzialità elusiva di un rapporto .

d) I “rapporti e le attività di collaborazione coordinata e continuativa comunque rese ed utilizzate ai fini istituzionali in favore delle associazioni o società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associative e gli enti di promozione sportiva riconosciuti dal CONI, come individuate e disciplinate dall’art. 90 della legge 27 dicembre 2002, n. 289”. L’esclusione in esame sembra potersi giustificare per la particolarità dei soggetti a vantaggio dei quali le prestazioni vengono rese , ma attenta dottrina ha evidenziato come tale esclusione rientri in un “progetto” che sta portando varie situazioni giuridiche attinenti all’ordinamento sportivo verso un trattamento differenziato. Occorre altresì notare che nel caso di specie non si richiede espressamente il requisito della prevalente personalità della prestazione, anche se, trattandosi di una ipotesi di esclusione, si dovrà applicare l’art. 409 n. 3 c.p.c., con conseguente necessità di valutazione dell’esistenza di tutti gli indici da tale articolo derivanti al fine di distinguere i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di carattere prevalentemente personale dal lavoro autonomo.

e) Restano altresì esclusi “coloro che percepiscono la pensione di vecchiaia”. La ratio di questa esclusione è probabilmente da rintracciarsi in una valutazione strettamente pratica, attinente alla possibilità di cumulo tra il trattamento pensionistico ed i compensi pattuiti per le collaborazioni coordinate e continuative . Peraltro resta del tutto incomprensibile il riferimento alle pensioni di vecchiaia, con esclusione delle “pensioni di anzianità”.

Accanto alle accennate reclusioni a carattere particolare sussistono altre due ipotesi di esclusione a rilevanza generale. Della prima, relativa al lavoro occasionale, si è già parlato, e pertanto si rinvia alle considerazioni già svolte.

In riguardo alla seconda esclusione generale occorre invece evidenziare le problematiche, anche di ordine costituzionale, che ne derivano. Ci si riferisce in particolare alla circostanza in forza della quale la normativa sul lavoro a progetto, come del resto tutto il D. Lgs. 276/2003, risulta inapplicabile a tutte le pubbliche amministrazioni in forza della clausola generale dettata dall’art. 1 secondo comma D.Lgs. 276/2003 . Questa esclusione è stata interpretata da parte della dottrina come una ingiustificata di disparità di trattamento, e come tale palesemente violativa dell’art. 3 Cost. e pertanto incostituzionale. A ben vedere, se pare condivisibile prospettare dubbi di costituzionalità sotto il profilo della disparità di trattamento in relazione alla generale esclusione dell’applicazione alle pubbliche amministrazioni di tutta la nuova normativa introdotta dal D. Lgs. 276/2003, e tenendo anche presente che in tal modo il legislatore si pone in netta controtendenza (o forse sarebbe meglio dire contraddizione) rispetto al fil rouge legislativo diretto ad uniformare il più possibile i settori del lavoro pubblico e privato , non può negarsi una certa ragionevolezza dell’esclusione se riferita alla fattispecie del lavoro a progetto. Infatti la vicenda della c.d. “parasubordinazione” nel pubblico impiego ha seguito degli itinerari diversi rispetto al settore privato, pur al fine arrivando a soluzioni non molto dissimili.

Il quadro concettuale di riferimento della materia in oggetto nel pubblico impiego è rappresentato da un lato dall’art. 97³ Cost. che stabilisce la regola del concorso per l’accesso agli impieghi nella P.A., e dall’altro dalla questione dei “precari” resa particolarmente complessa dal loro utilizzo improprio . La giurisprudenza, sia ordinaria che amministrativa, è peraltro giunta a soluzioni non molto dissimili dal settore privato pur partendo da premesse diverse: in particolare si è affermato che le prestazioni caratterizzate da collaborazioni coordinate e continuative a carattere prevalentemente personale sono sottratte dalla regola posta dall’art. 97 Cost. e sono anche sottratte dalle tutele previste per i lavoratori subordinati, fatta eccezione per l’applicazione della tutela processuale , l’art. 2113 c.c. e l’art. 2126 c.c. (in quest’ultimo caso in controtendenza rispetto al settore privato ). Un’apposita disciplina di legge riguarda, infine, i medici convenzionati del SSN che vengono fatti rientrare nel lavoro autonomo coordinato e continuativo pur se i loro rapporti sono caratterizzati da un elevato grado di subordinazione .

Una netta inversione di tendenza, nella direzione della contrazione all’utilizzo delle collaborazioni nella P.A., si è avuta con la riforma del 1993 da ultimo confluita nel D. Lgs. 165/2001 che all’art.7 comma sesto, afferma che “per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, le pubbliche amministrazioni possono conferire incarichi individuali ad esperti di provata competenza, determinando preventivamente durata, luogo, oggetto e compenso della collaborazione”. Pare evidente come si sarebbe dovuti pervenire ad una netta contrazione nell’utilizzo dei collaboratori, stante i requisiti richiesti dal citato art. 7 ben più restrittivi di quelli previsti dal 409 n. 3 c.p.c., ma la realtà ha evidenziato una crescente diffusione della tipologia nelle amministrazioni, anche in virtù del blocco delle assunzioni e delle carenze strutturali di organico. Peraltro la prima versione della legge finanziaria per il 2004 prevedeva la possibilità par le P.A. di stipulare contratti di lavoro a progetto , con evidenti problemi di coordinamento con la disciplina dettata dal D.Lgs. 276/2003, ma nella versione definitiva dell’art. 3 comma 651 legge 350/2003 il riferimento è stato espunto.

La mancata estensione del lavoro a progetto alle pubbliche amministrazioni si giustifica pertanto proprio perché per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni esiste già una norma specifica che peraltro introduce dei requisiti (esigenze oggettive, requisiti soggettivi del collaboratore, durata, luogo, oggetto e compenso della collaborazione) che sono molto simili ai requisiti richiesti per le collaborazioni a progetto ai sensi della nuova disciplina . Vale la pena aggiungere che l’estensione della disciplina in esame ai lavoratori presso le P.A. impedirebbe comunque l’operatività del principio di cui all’art. 69 D.Lgs. 276/2003 che sancisce la conversione automatica, sin dall’origine, del contratto di lavoro a progetto in contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato in caso di mancata individuazione del programma o di un progetto, in quanto l’art. 36² D.Lgs. 165/2001 espressamente l’esclude l’operatività di qualsivoglia meccanismo, seppur previsto da norme imperative, che comporti la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, fermo restando la possibilità per le amministrazioni di agire nei confronti del dirigente responsabile qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave.

Il decreto legislativo prevede all’art. 86¹ un regime transitorio, in forza del quale le collaborazioni coordinate e continuative stipulate ai sensi della disciplina previgente, “che non possono essere ricondotte ad un progetto o una fase di esso”, mantengono la loro efficacia fino alla scadenza contrattuale e, comunque, non oltre l’anno dall’entrata in vigore del D.Lgs. 276/2003 (e quindi non oltre il 24 ottobre 2004). Si prevede altresì la possibilità di prorogare l’efficacia delle collaborazioni old style tramite “accordi sindacali di transizione al nuovo regime di cui al presente decreto, stipulati in sede aziendale con le istanze aziendali dei sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale”. In quest’ultima ipotesi si tratta di una deroga che, nel testo del decreto, rappresenta una vera e propria esclusione generale , non essendo previsti limiti o condizioni. La scopo della normativa in esame è quello di rendere il meno traumatico possibile il passaggio alla nuova normativa.

La mancanza di limiti agli accordi sindacali di transizione ha indotto la dottrina ad interrogarsi sulla validità di accordi sindacali che prevedessero termini di scadenza delle vecchie co.co.co. molto lunghi o addirittura indeterminati. Così si è sottolineato come da un lato tali tipi di accordi non possano considerarsi illeciti tout court , in quanto nulla specifica l’art. 86 cit., ma al tempo stesso non può nascondersi una evidente illiceità (o forse sarebbe meglio parlare di irragionevolezza) per contraddizione con la ratio della norma. Proprio per evitare le notevoli problematiche derivanti dalla detta formulazione del primo comma dell’art. 86, il legislatore ha redatto, ai sensi dell’art. 7 D.lgs. 276/2003, il primo schema di provvedimento correttivo del D.Lgs 276/2003, prevedendo espressamente all’art. 15 la modifica dell’art. 86¹ D.Lgs. nel senso che gli accordi sindacali di transizione non possono prevedere termini di efficacia superiori a 24 mesi. Ne deriva che il potere delle associazioni sindacali risulta pertanto limitato dal detto limite massimo di 24 mesi, con l’ulteriore conseguenza che ove le parti stipulanti l’accordo sindacale di transizione abbiano previsto un termine di efficacia superiore a 24 mesi o non l’abbiano previsto affatto, la clausola dell’accordo sarà automaticamente integrata (o sostituita) con il temine massimo di proroga dell’efficacia previsto dalla legge.





8. Il progetto come oggetto del contratto.



Il progetto, come elemento essenziale della fattispecie in esame, non rimane esterno al contratto, ma lo caratterizza dall’interno.

A ben vedere la legge espressamente qualifica il progetto come l’oggetto del contratto (art. 67 comma primo).

Con questa affermazione, peraltro non del tutto chiara, il legislatore sembra affermare proprio che il progetto fa parte integrante del contratto ed è quindi, soggetto all’approvazione espressa da parte di entrambe i contraenti.

Infatti, pur se il progetto viene predeterminato in modo sostanzialmente autonomo dal committente, esso deve essere esplicitato in modo chiaro al collaboratore al fine di permetterne la sua consapevole approvazione. Una volta concluso il contratto, il progetto (e l’obbligo di risultato che contiene) diventa quindi, unilateralmente intangibile, e potrà essere modificato solo in forza di un consenso bilaterale.

Un primo problema può derivare proprio dalla compatibilità di tale costruzione con il principio generale in forza del quale l’oggetto, come elemento essenziale del contratto ex art. 1321 c.c., deve obbligatoriamente rientrare nel consenso di entrambe le parti del contratto. Se infatti “il progetto è determinato dal committente”, quindi dal committente unilateralmente predisposto, potrebbe sostenersi una inconciliabilità tra tale potere unilaterale (sull’oggetto del contratto e cioè sul progetto) ed il “contrapposto” potere di espressione del consenso da parte del collaboratore.

Parte della dottrina ha risolto la questione sostenendo che il progetto, lungi dall’essere predisposto in modo esclusivamente unilaterale dal committente, deve invece esser determinato concordemente dalle parti.

Il problema sembra potersi risolvere nel senso che la possibilità di determinazione del progetto da parte del committente di cui all’art. 61 primo comma si lega in modo inscindibile con il potere di gestione autonoma che il medesimo art. 61 riconosce in capo al collaboratore.

Infatti, in questo modo si realizza in pieno la “coordinazione”, intesa dalla giurisprudenza come connessione funzionale tra l’attività del collaboratore e l’organizzazione del destinatario della prestazione. Il committente esplica il proprio potere predisponendo unilateralmente il progetto, programma o fasi di esso, e cioè sostanzialmente individua il risultato che dovrà esser raggiunto dalla controparte nel termine “massimo” eventualmente indicato, mentre il collaboratore sarà perfettamente libero sia di accettare, prestando il proprio consenso sull’oggetto del contratto, sia di “autodeterminarsi” in riguardo alla gestione della propria attività lavorativa al fine del raggiungimento del risultato anzidetto e quindi, per l’adempimento stesso dell’obbligazione. Ne deriva che qualora il datore di lavoro dovesse predeterminare in modo rigido anche le modalità di svolgimento della prestazione lavorativa senza alcun tipo di intervento da parte del collaboratore, si integrerebbe senza dubbio una ipotesi di lavoro subordinato e non di lavoro a progetto.

Un ulteriore ostacolo alla configurazione del progetto come l’oggetto del contratto potrebbe essere individuata nel fatto che le norme generali sui contratti sanciscono la radicale nullità del contratto che non abbia un oggetto determinato o determinabile, mentre la specifica normativa del lavoro a progetto introduce la sanzione della trasformazione in contratto di lavoro a tempo indeterminato con efficacia ex tunc (art. 69 comma primo)

Anche questa obiezione può essere però facilmente superata considerando che rientra nei poteri del legislatore la scelta della sanzione da irrogare in relazione dei singoli casi considerati. Il rapporto che lega l’art. 1418² c.c. (che richiama espressamente i requisiti dell’oggetto stabiliti dall’art 1346 c.c.) all’art. 69 D. Lgs. 276/2003 è quindi un rapporto di genus a species.





9. Il lavoro a progetto come obbligazione di risultato e come contratto ad esecuzione prolungata.



La configurazione del lavoro a progetto come una obbligazione di risultato è uno degli snodi fondamentali per evitare abusi simili a quelli verificatesi con l’utilizzo delle vecchie collaborazioni coordinate e continuative.

Con l’obbligazione di mezzi l’obbligato si impegna ad effettuare una determinata prestazione senza garantire il risultato, con la conseguenza che l’obbligazione dovrà considerarsi estinta per intervenuto adempimento, allorquando l’obbligato abbia tenuto il detto comportamento. Il rischio del risultato non grava quindi sull’obbligato. Tipico esempio di obbligazione di mezzi è l’obbligazione del prestatore di lavoro subordinato.

Viceversa con l’obbligazione di risultato l’obbligato ci si impegna a raggiungere un determinato risultato, e solo con il compimento dell’opus o del servizio specifico potrà considerarsi adempiuta l’obbligazione.

Tanto premesso deve quindi aderirsi all’autorevole dottrina che qualifica l’obbligazione del collaboratore a progetto come obbligazione di risultato.

Tale tesi risulta anzitutto avvalorata dall’espressa dizione legislativa a mente della quale il progetto deve essere gestito autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato (art. 61) ma anche dal fatto che “i contratti di lavoro di cui la presente capo si risolvono la momento della realizzazione del progetto o del programma o fase di esso” (art. 67).

Si tratta degli indici tipici delle obbligazioni di risultato, in particolare ove si afferma che il contratto di lavoro a progetto si risolve (sarebbe stato più corretto parlare di estinzione per adempimento) al momento della realizzazione del progetto, o per meglio dire dell’opus o servizio che costituiscono il contenuto del progetto.

Ma aldilà del chiaro dettato normativo la configurazione del lavoro a progetto come obbligazione di risultato risulta in un certo senso obbligata laddove si voglia effettuare un deciso passo avanti rispetto alle vecchie collaborazione. Queste ultime, infatti, potevano consistere sia in obbligazioni di risultato che di mezzi, mentre invece il nuovo lavoro a progetto contiene, esclusivamente, una obbligazione di risultato.

Ne deriva che, solo allorquando il collaboratore avrà portato a compimento l’opus o il servizio previsti dal progetto l’obbligazione sarà perfettamente eseguita, anche non può escludersi che il progetto consideri una concatenazione di più opera o servizi , nel qual caso l’adempimento dovrà considerarsi continuativo corrispondentemente al permanere dell’interesse del committente .

Una volta considerato il lavoro a progetto come obbligazione di risultato se ne deve dedurre che il tempo impiegato per l’esecuzione dell’opus o del servizio non è elemento qualificante per il contratto di cui si tratta. Infatti, il disposto di cui all’art. 62¹ lett. a) (indicazione della durata determinata o determinabile della prestazione di lavoro) non attiene alla durata del rapporto ma alla esecuzione della prestazione. Peraltro, fermo restando l’impossibilità di accordi a tempo indeterminato , non può escludersi che la collaborazione possa essere prorogata o rinnovata .

Comunque, anche qualora fosse previsto un termine espresso di esecuzione della prestazione, deve considerarsi che tale termine non potrà giammai essere considerato come un termine minimo , in quanto se il collaboratore dovesse riuscire ad eseguire l’opus o il servizio in un tempo inferiore al termine stesso, l’obbligazione dovrebbe comunque considerarsi adempiuta con conseguente obbligo del committente di corrispondere l’intero compenso pattuito.

Il termine ex art. 62 lett. a) potrebbe invece intendersi come termine massimo, nel qual caso ove il collaboratore non riuscisse ad eseguire l’opus o il servizio richiesti entro il detto termine risulterebbe inadempiente al contratto con tutte le conseguenze che ne derivano. Tale conclusione sembra suffragata dagli artt. 67¹ e 66¹־². In termini più generali risulta difficile inquadrare il lavoro a progetto tra i contratti ad esecuzione istantanea o ad esecuzione continuata.

A tali fini il dettato legislativo non è di molto aiuto, poiché le disposizioni sono tra loro discordanti e quindi da un lato sembrano riferirsi ad un contratto di durata (v. art. 62 lett. a)) mentre dall’altro lato richiamano elementi che maggiormente si raccordano con un contratto ad esecuzione istantanea (v. art. 61 dove si afferma l’indipendenza dal tempo impiegato per l’esecuzione dell’attività lavorativa).

Come è stato efficacemente osservato , la soluzione al problema non può che essere condizionata dalla possibilità di stipulare un contratto di lavoro a progetto relativo ad un solo opus o servizio. Infatti se si ammette tale possibilità deve concludersi che il lavoro a progetto debba in questi casi considerarsi come contratto ad esecuzione istantanea, mentre, per converso, solo negando tale possibilità potrà affermarsi la natura di contratto ad esecuzione continuata.

Probabilmente questa (apparentemente) insanabile antinomia può essere sanata facendo riferimento alla categoria dei contratti ad esecuzione prolungata.

Attenta dottrina ha infatti evidenziato come la dicotomia tra contratti ad esecuzione istantanea e contratti ad esecuzione continuata possa esser superata da un tertium genus rappresentato appunto dai contratti ad esecuzione prolungata.

In questo modo sembra possibile ricondurre ad unità, soprattutto dal punto di vista della disciplina, ipotesi che sembrano inconciliabili, anche se si tratta pur sempre di precisare quale sia la disciplina applicabile ai singoli casi concreti.





10. Il requisito del progetto specifico o programma di lavoro o fasi di esso: la chiave di volta del nuovo schema contrattuale.



Il punto centrale di tutta la disciplina riguardante il lavoro a progetto è rappresentato dalle due questioni attinenti, da un lato alla interpretazione della nozione di “progetto specifico” di cui all’art. 61 come progetto individuale di lavoro o progetto - programma aziendale, e dall’altro lato il significato effettivo dei termini progetto, programma o fase di esso.

Prima di entrare nello specifico esame dei problemi ora enunciati, occorre osservare che le soluzioni prospettabili non dovrebbero mai dimenticare la finalità del nuovo tipo contrattuale, ed proprio per questo che si avverte ancora una volta la necessità di pervenire a conclusioni che risolvano i gravi problemi verificatisi con i co.co.co., per non cadere nell’assurda possibilità di interpretare in concreto il lavoro a progetto come mera variazione semantica dei vecchi co.co.co..

Nell’affrontare la prima questione, sempre nell’ottica anzidetta, sembra di assoluta coerenza interpretare il concetto “progetto specifico” come progetto dotato di una qualche forma di individualità.

Tale conclusione sembra suffragata sia dati testuali che da considerazioni sistematiche. In primis si deve far riferimento all’art. 62 lett. b) laddove prevede che elemento del contratto di lavoro a progetto è “l’indicazione del progetto o programma di lavoro, o fasi di esso, individuata nel suo contenuto caratterizzante, che viene dedotto in contratto”, evidenziando che tale elemento rientra nel contratto ed è oggetto del consenso delle parti, ma anche lo stesso art. 61, nel momento in cui richiede la prevalentemente personalità della prestazione del collaboratore, non può che comportare l’individualità del progetto che lo stesso collaboratore deve eseguire.

Aldilà di queste considerazioni di carattere testuale, deve notarsi che considerare la possibilità di un progetto non individuale, e quindi di stampo aziendale, frusterebbe inevitabilmente la finalità antiabusiva della normativa in esame. Infatti lo schema del lavoro a progetto dovrebbe essere utilizzabile in relazione ad attività che non rientrino nel normale programma aziendale che potrebbe esse svolto dai lavoratori subordinati inseriti stabilmente nell’azienda. Ammettere tale possibilità significa riconosce nel lavoro a progetto uno strumento privilegiato per l’elusione delle norme inderogabili di legge.

Il progetto nel nuovo tipo contrattuale dovrà essere pertanto caratterizzato da un grado, seppur minimo, di individualità, ma soprattutto non dovrebbe mai appiattirsi a ricalcare l’attività normalmente svolta nell’azienda .

Per dare concretezza al discorso si può fare un esempio.

Uno dei casi nei quali si è verificato con più frequenza l’abuso nell’utilizzo dei co.co.co. è quello dei call center. Secondo l’interpretazione data, una società che svolgesse come programma aziendale prevalente la fornitura di servizi di call center mai potrebbe assumere lavoratori con contratti di lavoro a progetto, pena l’applicazione della grave sanzione di cui all’art. 69 comma primo. Qualora, invece, una azienda necessitasse di un servizio di call center relativamente ad una particolare esigenza temporalmente determinata ed oggettivamente esterna alla normale attività aziendale (ad. es. una campagna pubblicitaria per un prodotto particolare), allora potrebbe assumere dei collaboratori a progetto.

Il progetto va, quindi, inteso come predeterminazione di una attività lavorativa che sia estranea al programma aziendale, un’attività che sia dotata di un certo grado di innovatività e soprattutto un’attività che possa (e debba) esser svolta dal collaboratore individualmente, o al massimo all’interno di un ristretto gruppo di lavoro.

Passando all’attribuzione di uno specifico significato ai termini di progetto, programma o fase di esso, occorre notare come parte della dottrina abbia efficacemente notato, come il legislatore abbia utilizzato le tre espressioni sostanzialmente come sinonimi, e che quindi andrebbero interpretati in modo atecnico senza poterne dedurre particolari conseguenze sul piano pratico.

A ben vedere è probabile che il legislatore non abbia fino in fondo voluto attribuire un significato specifico ai termini utilizzati, ma se anche ciò fosse vero, resta comunque compito dell’interprete ricostruire l’istituto secondo quella che è la ratio legis. Ma allora non potrà non individuarsi nel significato delle espressioni considerate la “chiave di volta” dell’intero sistema, poiché è solo tramite un’operazione ermeneutica volta a restringerne il significato che potrà pervenirsi alla delimitazione dell’abusato fenomeno delle vecchie co.co.co..

I tre termini considerati possono figurativamente esser considerati come i tre lati di un unico triangolo diretto a circoscrivere le possibilità di utilizzo delle collaborazioni.

La nozione di progetto pare quindi riferirsi all’ipotesi di uno schema di collaborazione che sia totalmente estraneo rispetto all’attività aziendale e dotato di un grado di originalità assolutamente più marcato ed evidente rispetto agli altri due termini.

Il programma sembra invece in qualche modo richiamare l’attività aziendale, e tende ad evidenziare la possibilità che l’attività descritta nel progetto si strettamente legata ai processi aziendali pur rimanendone però distinta.

Infine, il concetto di fase, che una stretta interpretazione del dettato legislativo pare riferire solo al programma, può essere utilmente interpretato per permettere alle aziende di raggiungere progetti di grandi dimensioni tramite l’adibizione agli stessi di un numero rilevante di collaboratori “new style”, ognuno dei quali dovrà però esser assunto relativamente singole e determinate fasi dell’unico progetto .

Pare evidente che occorrerà attendere i primi orientamenti giurisprudenziali per poter attribuire un sicuro significato ai termini in esame, anche perché i margini di discrezionalità interpretativa sono comunque ampi, essendo possibile pervenire a conclusioni assolutamente contrapposte.











11. La forma



L’art. 62 D.Lgs. 276/2003 afferma che il contratto di lavoro a progetto deve essere “stipulato in forma scritta e deve contenere, ai fini della prova” una serie di elementi: l’indicazione della durata (determinata o determinabile), l’indicazione del progetto o programma di lavoro o fase di esso, il corrispettivo ed “i criteri per la sua determinazione”, le modalità di pagamento e la disciplina dei rimborsi spese, le forme di coordinamento della prestazione concordate tra collaboratore e committente, le eventuali misure di sicurezza ulteriori rispetto a quelle previste dal D.Lgs. 626/1994 e successive modifiche o integrazioni.

Il legislatore, onde evitare problemi interpretativi, espressamente afferma che la forma è richiesta non ai fini della validità del contratto, ma soltanto della “prova”, onde sul punto non paiono comprensibili le posizioni dottrinali che affermano la nullità del contratto in caso di forma scritta .

Diverso è problema è se sia possibile rintracciare all’interno degli elementi indicati dall’art. 62 cit., la presenza di taluni “elementi essenziali” rispetto ai quali la forma sarebbe da considerarsi necessaria pena la nullità del contratto e l’operatività della sanzione di cui all’art. 69 D.Lgs. 276/2003.

In effetti si è efficacemente evidenziato come l’esistenza di una norma come l’art. 69 cit., ed una complessiva valutazione di tutta la normativa del lavoro a progetto, inducano a ritenere essenziali gli elementi del progetto e della durata (determinata o determinabile), con la conseguenza che i detti elementi dovrebbero risultare obbligatoriamente da fonte scritta, mentre per gli altri elementi (che pertanto potrebbero definirsi come accidentali) la forma dovrebbe valere solo ad probationem. In verità la tesi, seppur suggestiva, non può esser accolta per il semplice motivo che il legislatore ha espressamente stabilito, seppur con una forma criticabile, che la forma è ad probationem.

La mancanza di forma scritta, in generale richiesta solo ai fini della prova, può in effetti avere una valenza differenziata a seconda del singolo elemento (tra quelli previsti dall’art. 62 cit.) preso in considerazione, ma solo in riferimento al profilo probatorio innanzi al giudice del lavoro. In particolare occorre considerare che la regola della forma tende ad incidere in maniera profonda nei confronti del committente , visto che è difficile pensare un concreto interesse del collaboratore alla qualificazione giudiziale del rapporto di lavoro in termini di lavoro a progetto. Ma allora può sostenersi che, in caso mancanza di prova scritta di elementi fondamentali come il progetto o la durata, lungi dal ritenere direttamente applicabile il meccanismo di cui all’art. 69 D.Lgs. 276/2003, sarà indubbiamente più complessa la prova dell’esistenza di un contratto di lavoro a progetto al fine di escludere l’operatività del meccanismo di conversione del rapporto in un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. In altre parole il giudice non potrà fondare la conversione sul solo dato oggettivo della mancanza di forma scritta dell’elemento “progetto”, ma sicuramente potrà utilizzare quella mancanza come cardine privilegiato attraverso il quale giustificare la conversione, salvo comunque la possibilità per la parte (presumibilmente il committente) di dimostrare il contrario .

Pertanto può affermarsi che un contratto di lavoro di lavoro a progetto con un requisito essenziale privo di forma scritta integra un rapporto che lambisce il contratto di lavoro subordinato, salvo prova contraria. Solo in questo senso può parlarsi di differenza tra gli elementi di cui all’art. 62 cit.

La forma del lavoro a progetto, essendo forma della prova e non dell’atto, opererà esclusivamente all’interno del processo con applicazione degli artt. 2725¹, 2724 n. 3 e 2729² c.c.. La prova dell’esistenza degli elementi di cui all’art. 62 non potrà quindi esser fornita tramite testimoni, salvo il caso in cui la parte abbia perso “senza sua colpa il documento che gli forniva la prova”.

Infine, l’atto di certificazione che conclude il procedimento di cui all’art. 78 D.Lgs. 276/2003 non potrà surrogare lo smarrimento, la distruzione o l’assenza del documento negoziale regolarmente sottoscritto dalle parti.





12. Il principio della retribuzione proporzionale e sufficiente e la sua estensione alla nuova nozione di lavoro a progetto



L’art. 2099 cod. civ. disciplina al comma 1, i modi e i tempi di corresponsione della retribuzione del prestatore di lavoro subordinato. Al 2° comma è prevista la possibilità di determinazione giudiziale della retribuzione. Il terzo ed ultimo comma indica le ulteriori forme di retribuzione, oltre a quella a tempo, che le parti possono convenire, (partecipazione agli utili o ai prodotti, provvigione o in natura).

La lettura della norma induce a considerazioni di carattere generale. Il primo rilievo, concerne l’assenza nel codice vigente di una definizione della retribuzione. Il legislatore si è richiamato a stabilire le forme di retribuzione in considerazione del carattere oneroso del rapporto di lavoro subordinato, codificato nell’art. 2094 cod. civ., in sede di definizione del prestatore di lavoro subordinato.

L’onerosità della prestazione lavorativa subordinata, caratterizzante il rapporto medesimo, costituisce una linea di demarcazione tra lavoro subordinato retribuito e il lavoro prestato a titolo gratuito, in ogni caso, esulante dalla disciplina codicistica. La linea di demarcazione ha dato luogo, nella fattispecie di confine, ad un contenzioso abbastanza rilevante. La sistemazione codicistica costituisce un punto di approdo nell’evoluzione del concetto di retribuzione, evoluta a rango di obbligo principale nel rapporto di lavoro, seppure in visione collaborativa. In ogni caso, l’assenza della definizione di un concetto di retribuzione da parte del legislatore del 1942 è in linea con l’indirizzo corporativo e ciò probabilmente a causa della prevalenza del dato economico rispetto a quello giuridico.

Un secondo rilievo concerne l’autonomia che è attribuita alle parti nella determinazione della retribuzione. Si tratta, in verità, di un’autonomia integrata dalla condizionante interferenza della norma collettiva e dalla possibilità residuale dell’intervento del giudice. Tuttavia, l’evoluzione del concetto in questione, soprattutto dopo l’entrata in vigore della vigente Costituzione, è stato caratterizzato, in modo decisivo, dalla portata sociale della retribuzione che è funzionalizzata, per il prestatore d’opera, al mantenimento proprio e della propria famiglia.

L’incidenza del dato sociale si è pure dispiegata sotto un profilo meramente soggettivo in relazione al sesso e all’età dei lavoratori, attraverso l’imposizione di regole paritarie volte a rimuovere le tradizionali disparità di trattamento retributivo. A tal proposito, va chiarito sin da ora che i precetti costituzionali, tesi a correggere la disparità di trattamento tra uomo e donna, trovano un chiaro fondamento nel principio centrale della c.d. “giusta retribuzione”. Tuttavia, l’introduzione di un principio costituzionale ha dato luogo a molteplici problemi, alcuni dei quali oramai risolti dalla consolidata posizione assunta dalla giurisprudenza. Il primo problema concerneva l’alternativa tra programmaticità e precettività dell’art. 36 Cost. Infatti, nei primi anni ’50 si sviluppò, in proposito, una lunga “querelle”, tra coloro che reputavano immediatamente applicabile il precetto costituzionale, e coloro che affermavano trattarsi di un principio di carattere generale, bisognoso di ulteriori specificazioni normative. Le posizioni dottrinarie, che ovviamente sottolineavano precise scelte ideologiche, furono in gran parte superate dalla presa di posizione della giurisprudenza che, dopo iniziali tentennamenti, si avviò concretamente a scegliere per la precettività della norma costituzionale in questione. Ciò premesso, è opportuno precisare che il problema della programmaticità è stato superato da altre questioni tuttora non compiutamente risolte. Vanno presi in considerazione i due requisiti indicati dalla norma costituzionale, caratterizzanti la retribuzione: la proporzionalità e la sufficienza. Quanto al primo requisito, quello della proporzionalità, appare chiaro che è già insito nel precetto costituzionale, il riferimento ad un termine di confronto e di proporzione: miglior lavoro e maggior retribuzione. Andando oltre tale primo, letterale, rilievo occorre considerare che il criterio della proporzionalità può essere inteso in una visione di mero scambio, in altre parole in maniera differente, tenendo in considerazione la pregnante implicazione della persona umana nel rapporto di lavoro subordinato. Inoltre, il concetto di proporzionalità è da considerare non necessariamente collegato con quello di sufficienza. Infatti, il principio della proporzionalità va in ogni caso rispettato, sia alla presenza di lavoro a tempo pieno, sia a tempo parziale, essendo palese come, per quanto concerne il lavoro part-time, non possa ipotizzarsi un diritto alla retribuzione sufficiente in senso assoluto, in altre parole tale da garantire il sostentamento del lavoratore e della sua famiglia, ma relativo. Non solo, ma in questa prospettiva si è anche posto il problema della portata della norma in chiave paritaria: se in altri termini, dall’art. 36 Cost. possa essere ricavato un principio generalizzato di parità di trattamento retributivo. Mentre il concetto di sufficienza, generalmente si è reputato, che esso debba essere inteso in senso relativo. Infatti, essendo tale requisito della retribuzione collegato ad un giudizio di merito sulla vita libera e dignitosa del lavoratore, è chiaro che il risultato può variare secondo il momento storico di attuazione del precetto. Dunque, non si può dubitare che il livello retributivo d’oggi è assai diverso di quello di quaranta anni fa: da tale constatazione discende che il giudizio di congruità della sufficienza può variare notevolmente in relazione alla fattispecie, a prescindere dal parametro più comune di riferimento che è costituito dalla contrattazione collettiva. La giurisprudenza ha avuto, dunque, un ruolo decisivo nell’elaborazione di una nozione di giusta retribuzione secondo le direttive costituzionali. Infatti, le prime applicazioni giurisprudenziali in materia costituiscono un evidente correttivo all’esplicazione dell’autonomia privata; nel meccanismo applicativo è operato un espresso collegamento tra la norma che prevede la possibilità di determinazione giudiziale della retribuzione (art. 2099 cod. civ.), e la norma Costituzionale d’immediata attuazione (art. 36 Cost.), che indica i criteri che inderogabilmente devono essere rispettati nella valutazione. Le analisi della giurisprudenza hanno posto in luce che, nel primo periodo di applicazione della norma costituzionale, l’esigenza maggiormente sentita era quella di tutelare le fasce di lavoro subordinato non disciplinate dai contratti collettivi di diritto comune, per le quali occorreva approntare una tutela minima. Quindi, il connotato della sufficienza acquistava risalto rispetto a quello della proporzionalità. Diverso era il discorso relativo alla retribuzione giudiziale, che avviene attraverso l’applicazione del combinato disposto degli artt. 2099 cod. civ. e 36 Cost., in altre parole, secondo un’altra opinione, tramite la diretta applicazione dell’art. Cost. Il meccanismo applicativo è limitato a due operazioni: a) il sindacato da parte del giudice sulla congruità della retribuzione al precetto costituzionale; b) in caso di accertata incongruità, la fissazione della retribuzione congrua, previa dichiarazione di nullità della clausola contrattuale relativa al corrispettivo, sulla base dell’art 1419 cod. civ. Il proposito della giurisprudenza assume un valore essenziale, in quanto da essa è dato di ricavare le linee di supplenza che si sono sviluppate in diverse direzioni, andando dall’applicazione tout court delle tariffe previste dalla contrattazione collettiva, all’applicazione non automatica di dette tariffe, alla determinazione, infine, caso per caso a prescindere dalla contrattazione collettiva. Vi è da notare, che anche se generalmente in giurisprudenza si fa riferimento, ai fini della determinazione giudiziale della retribuzione, al combinato disposto degli artt. 2099 cod. civ. e 36 Cost., non si può negare che il richiamo all’art. 2099 cod. civ appare forzato, poiché dalla precettività dell’art 36 Cost. dovrebbe discendere, ex se, il diritto del lavoratore a vedersi riconosciuta, ope iudicis, la giusta retribuzione. Il diritto del lavoratore all’adeguamento retributivo, secondo le direttive costituzionali, è azionabile secondo alcuni canoni elaborati dalla giurisprudenza; prima fra tutti, vi è la necessità di una domanda di parte, perché l’insufficienza del corrispettivo non è rilevabile d’ufficio. Un altro criterio di applicabilità insiste sui termini della domanda ex art. 36 Cost.; ossia, se occorra la specificazione, da parte del lavoratore, della tariffa retributiva che si ritiene conforme alla norma costituzionale, o se viceversa, sia sufficiente la richiesta di adeguamento senza ulteriori specificazioni. Quest’ultima soluzione sembra preferibile, perché la determinazione giudiziale prescinde dall’indicazione di parametri predeterminati, dipendendo esclusivamente dalla valutazione del giudice, se l’allegazione del lavoratore sia fondata. Dopo il giudizio di merito sulla congruità della retribuzione, il giudice provvederà alla parte costruttiva della pronuncia di adeguamento determinando la congrua retribuzione. In genere, si reputa che qualunque tipo d’attività lavorativa subordinata sia protetta dall’art. 36 Cost., a prescindere dai tempi e dai modi di attuazione della prestazione. Ma, proprio la generale applicabilità dell’art. 36 Cost. al lavoro subordinato, non trova riscontro nell’ambito del lavoro autonomo, dove la regola è nel senso del disconoscimento della tutela anche per il lavoro parasubordinato. Si tratta di una questione che a livello dottrinario ha avuto un’ampia trattazione. In effetti, com’è stato rilevato, il precetto costituzionale in questione non è rivolto, in senso letterale, al lavoro subordinato. D’altra parte, per taluni tipi di rapporto autonomo, caratterizzati dalla personalità e dalla continuità della prestazione, potrebbe apparire non infondata la prospettiva della tutela ex art. 36 Cost. L’inapplicabilità trova fondamento nell’ostacolo posto dalla norma del cod. civ. (art. 2099), che è rubricato proprio nel lavoro subordinato, escludendo a priori l’applicazione normativa a diverse fattispecie lavorative. Peraltro, nonostante le posizioni dottrinarie, la giurisprudenza, tranne che in qualche caso isolato, è orientata nel senso della disapplicazione della norma costituzionale. Parimenti, in genere, si è negata la tutela ex art. 36 1°comma Cost. ai soci d’opera, poiché il compenso del socio si configura non come corrispettivo, bensì quale partecipazione al risultato di un’attività comune. La tesi giurisprudenziale che nega la possibilità di applicazione dell’art. 36 Cost. al lavoro autonomo e al lavoro coordinato, in genere, appare molto esatta se si guarda all’inapplicabilità dovuta all’assenza di un vincolo di subordinazione in tali rapporti. Tuttavia, andrebbe affrontato il riesame della questione specialmente alla luce delle altre forme contrattuali di utilizzazione del lavoro (part-time, formazione e lavoro, job sharing), nelle quali il requisito della subordinazione assume un rilievo certamente inferiore rispetto alle concezioni tradizionali. Infatti, in taluni rapporti di parasubordinazione, specialmente nelle collaborazioni coordinate e continuative, la retribuzione per l’opera prestata ha trovato una formula che si sostanzia con il corrispettivo “legislativamente” indicato con il termine di provvigione. La formula provvigionale assume rilievo in alcune attività nelle quali la prestazione lavorativa sia suscettibile di valutazione in relazione ad un risultato. Il settore nel quale maggiormente è diffusa è quello commerciale nel quale, come è noto, vi è necessità di una promozione delle vendite di tipo capillare, caratterizzante soprattutto la grande distribuzione. Ed è proprio la promozione delle vendite l’oggetto tipico del contratto d’agenzia, che costituisce uno strumento classico d’intermediazione e di vendita. In tale tipo di attività, essendo così intuitivamente rilevante il risultato (la promozione e/o la vendita), appare chiara l’importanza del collegamento tra il risultato e il compenso. A mio avviso, tale nesso può assumere valore fondamentale nei rapporti di durata di lavoro parasubordinato, mentre è più sfumato nei rapporti di lavoro subordinato nei quali il compenso ha una funzione essenziale. È per questo motivo che l’alea connessa con una retribuzione totalmente a provvigione è temperata dalla previsione, di sistemi misti nei quali vi è una parte in misura fissa mensile, l’altra, variabile, in relazione alle vendite promosse o effettuate, oppure all’entità del fatturato. L’esempio della retribuzione dell’agente di commercio è importante perché introduce un principio, secondo il quale: poiché vi è retribuzione per l’opera prestata, essa va determinata, o quanto meno resa determinabile, come vuole l’art 1346. In mancanza di determinatezza o di determinabilità della retribuzione medesima non consegue la nullità del contratto, bensì la facoltà delle parti, ove non esistano usi in materia, di ottenere la determinazione ope judicis, secondo equità. E ciò in applicazione non già dell’art. 1374 cod. civ., che riguarda un contratto valido ed unicamente indirizzato ad integrarne gli effetti, bensì di un altro e altrettanto generale principio che trovasi espressamente sancito nei confronti di un altro contratto, come il lavoro autonomo ex art 2222 cod. civ., e che per molto tempo è risultata estranea alla disciplina delle collaborazioni coordinate ex art. 409 n°3 c.p.c., ma che invece, in ordine al compenso dovuto al collaboratore è da notare che l’art. 63 del D.Lgs. 276/03 introduce inopinatamente la regola della proporzionalità “alla qualità e alla quantità del lavoro eseguito” risultante, appunto dall’art. 36 della Cost., e tipica della retribuzione del lavoratore subordinato.

Tuttavia, difficoltà di un certo rilievo può presentare la determinazione, in concreto, del compenso che, ai sensi dell’art. 63, deve tener conto dei compensi normalmente corrisposti per analoghe prestazioni di lavoro autonomo nel luogo di esecuzione. Tali parametri, possono essere di qualche ausilio, più teorico che pratico, in mancanza di accordi collettivi per il lavoro a progetto. Sia la regola di proporzionalità (ricompressa nei principi e criteri indicati nell’art. 64, comma 1, lett. c) n. 1 della legge delega 30/2003) che gli altri parametri per la determinazione del compenso, costituiscono norme di legge alle quali il committente deve attenersi e la cui applicazione è sindacabile dal giudice di merito, il quale dovrà operare valutazione equitative.





13. Obbligo di fedeltà e patto di non concorrenza



Non è facile dar conto delle diverse posizioni della dottrina, relative alla natura e al fondamento degli obblighi contenuti nell’art. 2105 cod. civ. Spesso non è chiaro, se nel cercare il fondamento dell’obbligo di fedeltà, ci si voglia riferire agli obblighi di non concorrenza e riservatezza o, invece, ad obblighi più vasti e ulteriori rispetto al contenuto della norma in esame. È bene dire subito, che da molto tempo la dottrina, anche quella maggiormente attratta da un significato ampio della fedeltà del lavoratore, esclude concretamente che nel nostro ordinamento, si possa fondare un obbligo del lavoratore di “fedele dedizione di sé” verso il datore di lavoro, ponendosi completamente al di fuori della logica contrattuale di scambio, ormai, universalmente accettata dalla dottrina giuslavoristica. Pertanto, va rilevato che nel nostro ordinamento giuridico non esiste un concetto unitario di fedeltà, secondo le diverse norme che la prevedono, e secondo le diverse fattispecie alle quali si riferisce o nelle quali s’inserisce. Dunque, la dottrina è concorde, oggi, nel ritenere che la natura e la ratio della fedeltà imposta al lavoratore non può essere desunta dalle norme che regolano il rapporto di lavoro e solo da loro. La stessa dottrina rifiuta le ipotesi comunitarie del rapporto di lavoro, inserendo l’obbligo di fedeltà nell’ambito dei doveri che nascono dal contratto. L’opinione meno recente, ma dalla quale è necessario partire, se non altro per l’ampio dibattito che ha suscitato, considera l’obbligo di fedeltà del lavoratore perfettamente coerente con la funzione del contratto di lavoro, letta nell’ottica comunitaria dell’impresa, attraverso una particolare rilevanza attribuita all’interesse dell’impresa stessa. Infatti, la funzione consiste nell’integrare l’attività singola con quella di tutti coloro che fanno parte dell’organizzazione dell’impresa, ed insieme cooperano alla gestione dell’azienda, (art. 46 Cost.). Le parti sarebbero impegnate allo svolgimento dell’attività comune, dalla quale strettamente dipende la soddisfazione d’interessi finali che possono anche divergere. La collaborazione non sarebbe, pertanto, addossata al solo lavoratore, poiché il carattere strumentale dell’interesse dell’impresa renderebbe inammissibile l’esercizio dei poteri di direzione e coordinamento che fanno capo all’imprenditore, per ragioni non giustificabili alla stregua delle esigenze connesse all’interesse diretto nella destinazione strumentale dello scopo. Comunque, l’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 cod. civ. è concepito in funzione del medesimo interesse alla cui stregua si atteggia l’obbligo di diligenza, previsto dal precedente art. 2104 cod. civ. Vanno distinti i connotati di fedeltà e collaborazione, poiché sono due obblighi diversi anche se caratterizzati dalla stessa ratio e volti entrambi all’interesse dell’impresa. Nonostante, la sottolineatura del profilo comunitario e dell’interesse (oggettivo) dell’impresa, non si determina un ampliamento degli obblighi del lavoratore, poiché la fedeltà è sempre ricondotta nell’ambito delle norme che la prevedono; essa in sostanza, si atteggia di volta in volta nel modo che è dalla fonte costitutiva dell’obbligo. Con specifico riferimento alla concorrenza vietata, al lavoratore va precisata la distinzione tra concorrenza sleale ex art. 2598 cod. civ., e concorrenza infedele di cui all’art. 2105 cod. civ.. La differenza sta nel fatto che, nel secondo caso il comportamento di non concorrenza proviene da chi è contrattualmente partecipe di un interesse, sia pure semplicemente strumentale al raggiungimento d’interessi finali divergenti. Ciò, confermerebbe che l’interesse tutelato dall’art. 2105 cod. civ., che giustifica la sua ratio, sarebbe l’interesse mediato e strumentale dell’organizzazione del lavoro, che va distinto dall’interesse individuale e finale dell’imprenditore. Il comportamento infedele, dunque, lederebbe l’interesse finale del datore di lavoro, ma solo quando pregiudichi l’attitudine dell’organizzazione a consentirne il soddisfacimento. I divieti di cui all’art. 2105 cod. civ. sarebbero, quindi, riconducibili ad una comunanza d’interessi tra lavoratori e datore di lavoro. In altre parole, l’obbligo di fedeltà troverebbe giustificazione nel contratto di lavoro, poiché funzionalmente preordinato alla realizzazione di un interesse oggettivo dell’impresa.

Ma se, per tale dottrina, la comunanza d’interessi è strumento necessario alla gestione collettiva dell’impresa, lo stesso non si può dire di un’altra e più recente costruzione dottrinale. Si differenzia dalla precedente per molti aspetti, tra cui il rifiuto del riconoscimento di natura comunitaria all’obbligo di fedeltà, e il ritenere i comportamenti vietati dall’art. 2105 cod. civ., come meramente esemplificativi d’attività vietate perché genericamente infedeli. Tale dottrina fornisce un’interpretazione rigorosa dell’art. 2105 cod. civ., mentre si dilunga nel definire come comportamenti infedeli, tutti quelli che la giurisprudenza ritiene rilevanti agli effetti dell’art. 2119 cod. civ., e che sono riconducibili all’infedeltà che incrina la relazione interpersonale delle parti. Dunque, gli obblighi di non concorrenza e riservatezza consisterebbero in mere tipizzazioni legislative di un più vasto obbligo di fedeltà, il cui contenuto è fatto coincidere con i comportamenti rilevanti ai fini del recesso in tronco, poiché non vi sarebbe alcuna possibilità di graduazione delle sanzioni in caso di violazione dell’art. 2105 cod. civ. Alle due costruzioni, appena descritte, è solitamente affiancata una terza, secondo la quale la fedeltà, al pari della subordinazione, costituisce un modo di essere dell’obbligazione di lavoro. La dottrina si propone di definire l’oggetto dell’obbligazione lavorativa, affermando che il comportamento dovuto dal lavoratore comprenderebbe anche alcune attività, che non necessariamente devono essere specificate dall’esercizio del potere direttivo, ma che sono date, poiché integrate nello schema del contratto di lavoro. È evidente la lontananza di un obbligo di fedeltà così inteso, rispetto agli obblighi previsti all’interno dell’art. 2105 cod. civ. Insomma, sembra che si voglia ricomprendere nell’oggetto della prestazione lavorativa, anche gli obblighi di non concorrenza e riservatezza dell’art. in questione. Le posizioni delle diverse dottrine analizzano l’art. 2105 cod. civ. limitatamente al campo d’applicazione del lavoro subordinato, ma ciò, non esclude che si possano prevedere obblighi analoghi anche a carico di vari rapporti continuativi di collaborazione professionale a carattere non subordinato. Sembra da escludersi un’automatica estensione delle previsioni dell’art. 2105 cod. civ al lavoro parasubordinato, e in particolare alle collaborazioni coordinate e continuative ex art. 403 n°3 c.p.c., considerata la cautela della dottrina e della giurisprudenza. Qualche interesse, però, offre al tema trattato, l’art. 28 del contratto collettivo del 8 aprile 1998. Tale articolo impone al collaboratore il divieto di fornire qualsiasi tipo d’informazione, o quant’altro sia venuto in suo possesso di pertinenza dell’azienda o della cooperativa, e di altre aziende in cui presta la sua collaborazione. La norma collettiva estende, pertanto, a questi collaboratori l’obbligo contrattuale di non divulgare notizie; nulla dice, invece, riguardo all’obbligo di non concorrenza, ed anzi, prevedendo esplicitamente che il collaboratore possa essere titolare di più rapporti di lavoro con committenti diversi, porta ad escludere l’applicazione dell’art. 2105 cod. civ. Così, si evince che gli interessi dei committenti di lavoro, che richiedono la collaborazione di prestatori d’opera, saranno perciò tutelati, secondo i casi, dalle norme di concorrenza sleale, o dalla normativa specifica eventualmente posta per i diversi tipi di collaborazione subordinata o autonoma. Mentre, a prima vista non pongono rilevanti problemi le norme dell’art. 64 del D.Lgs. 276/2003 sull’obbligo di riservatezza, secondo cui il collaboratore a progetto può svolgere la sua attività a favore di più committenti, ma gli inibito di agire in concorrenza con essi, di diffondere notizie o apprezzamenti in ordine ai loro programmi e organizzazione, nonché di compiere atti in pregiudizio dell’attività dei medesimi committenti.





14. La diligenza



L’analisi dell’obbligo di diligenza prenderà le mosse, in questa trattazione, dal 1°comma dell’art. 2104 cod. civ., secondo cui, il prestatore di lavoro nell’adempiere l’obbligazione deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore dell’interesse nazionale. Si tratta di una regola non ignota alla riflessione giuslavoristica, e diffusamente richiamata nelle argomentazioni giurisprudenziali. La giurisprudenza, come la dottrina, individua pacificamente nell’art. 2104 cod. civ. una specificazione del principio generale dell’art. 1176 cod. civ., con gli opportuni adattamenti dettati dalla natura della prestazione. Ma, la giurisprudenza, talvolta, tratta la regola della diligenza in modo troppo generico e vago, fino a privarla di una propria autonomia concettuale. In alcuni casi ciò avviene a causa della sovrapposizione tra le prescrizioni contenute nei due commi dell’art. in oggetto. Questo è quanto si evince, ad esempio, quando si qualifica, come contrario a diligenza, il rifiuto di eseguire un ordine o un tentativo di truffa ai danni del datore di lavoro. In effetti, il richiamo alla regola della diligenza appare estraneo rispetto alla verifica della legittimità della richiesta datoriale, in relazione alle mansioni esigibili dal prestatore che individuano e delimitano l’area del debitum, la cui inosservanza costituisce semmai una violazione del secondo comma, e non del primo, dell’art. 2104 cod. civ.. Infatti, numerose decisioni suggeriscono una sostanziale “bilaterizzazione” della regola di diligenza: così, quando, si afferma che lo svolgimento delle prestazioni, di entrambe le parti del contratto di lavoro, debba rispondere ai principi di solidarietà generale, di correttezza e di buona fede. Naturalmente, l’affermazione in sé non è errata: infatti, trattandosi di un contratto, tanto il prestatore quanto il datore di lavoro assumono reciprocamente i ruoli di creditore e debitore, e quindi anche costui, in quanto debitore del prestatore, deve adempiere le proprie obbligazioni usando la normale diligenza. Tuttavia, ciò che muta è la disciplina normativa, perché in capo al datore trova applicazione, non già l’art. 2104 cod. civ., ma solo l’art 1176 cod. civ. A conferma di ciò, può segnalarsi una diffusa giurisprudenza in materia di obblighi di comunicazione in merito ad eventuali impedimenti del lavoratore. In tal caso, è affermazione abituale che la relativa portata dell’impedimento debba essere contenuta nei limiti, e negli equilibri segnati dalle regole di buona fede, diligenza, correttezza e ragionevolezza, perché tutte concorrono ad integrare il regolamento contrattuale, e valgono a definire, sul piano della rilevanza giuridica, il limite effettivo di obbligatorietà dell’impegno negoziale. Inoltre, la regola della diligenza trova un’incidenza nell’individuazione del rapporto di lavoro. Così, alcune decisioni sostanziano l’obbligo di diligenza del lavoratore nell’esecuzione della prestazione lavorativa, e dei comportamenti necessari a soddisfare l’interesse del datore ad un’utile prestazione, anche quando non siano esplicitati contrattualmente e a condizione che siano indiscutibilmente strumentali, e non costituiscano oggetto delle mansioni assegnate ad altri lavoratori. A tale stregua, sono state individuate come tipiche violazioni della regola della diligenza: il rifiuto di soddisfare una richiesta del cliente, quando sia decorso un breve lasso di tempo dal termine dell’orario di servizio; le elargizioni da parte dei fornitori di entità tale da favorire nelle trattative l’interesse di costoro, piuttosto che quello del datore di lavoro; la mancata restituzione delle cose affidate dal datore di lavoro al prestatore, che ai fini dell’accertamento di responsabilità, equivale ad una mancanza di diligenza nel disimpegno delle mansioni dovute . Addirittura, alcune sentenze fanno rivivere l’interesse superiore della produzione nazionale, del quale, si afferma che, valutato in relazione ai principi della Costituzione, risponde alle moderne esigenze della realtà economica sociale . Oltre a questo, è di tutto riguardo, il ruolo che la diligenza gioca nel giudizio di responsabilità. Alcune decisioni riconoscono nello sforzo diligente, il limite dell’impegno solutorio. Altre, poche per la verità, distinguono nettamente tra fattispecie d’inadempimento e imputabilità del medesimo. Da ciò, derivano effetti rilevanti in ordine alla prova poiché la dimostrazione dell’inadeguatezza della prestazione resa, grava sul creditore di lavoro, mentre incombe sul debitore dimostrare che quella inadeguatezza è giustificata, perché a lui non imputabile, o imputabile ai fatti cui la legge riconosce l’impedimento della prestazione. Diversamente, costituisce un orientamento diffuso richiedere per il perfezionamento della fattispecie di giusta causa, o di giustificato motivo, la sussistenza della colpa, in altre parole la mancanza di diligenza del prestatore; tanto che per l’accertamento dell’inadempimento del lavoratore legittimante il licenziamento, si vuole la verifica dell’elemento soggettivo e di quello oggettivo. Infatti, l’elemento soggettivo è dato dalla gravità della colpa, perché è la colpa, e non l’utilità del creditore, il criterio per determinare la gravità dell’inadempimento. Inoltre, è pacifico che nella giurisprudenza la responsabilità contrattuale del prestatore si fondi su di un elemento soggettivo, ed è confermato da alcune sentenze in tema di scarso rendimento del lavoratore. La più recente giurisprudenza ritiene, che il mancato raggiungimento del risultato prefissato costituisce un indice di non esatta esecuzione della prestazione, qualificabile come inadempimento nel caso in cui sia possibile accertare la negligenza del prestatore da parte del datore di lavoro. L’accertamento del giudice di merito dovrà, dunque, verificare il nesso di causalità tra il dato oggettivo del mancato raggiungimento del parametro, e il comportamento soggettivamente negligente del lavoratore nell’espletamento della prestazione lavorativa. Naturalmente, la violazione del dovere di negligenza comporta l’obbligo del medesimo lavoratore di risarcire, a titolo di responsabilità contrattuale, il danno derivato al datore di lavoro dalla sua condotta negligente o imprudente, anche indipendentemente dall’irrogazione di eventuali sanzioni disciplinari.

Tuttavia, solo se si guarda al rapporto di lavoro come obbligazione delle parti all’esatta esecuzione di un’opera, si può pensare ad un obbligo di diligenza anche nelle collaborazioni coordinate e continuative ex art. 409 n°3 c.p.c. Infatti, l’art. 2104 cod. civ. assorbe il riferimento all’art 1176 cod. civ., non solo perché specifica la natura dell’attività, correlandola alla prestazione dovuta e all’interesse dell’impresa, ma anche e soprattutto, perché trova applicazione sempre nei confronti del soggetto che abbia stipulato un contratto come debitore di lavoro. Il richiamo alla natura dell’attività esercitata, non è da riferire oggettivamente al tipo di rapporto o di prestazione dovuta, piuttosto alla condizione del soggetto obbligato. Pertanto, il lavoratore subordinato, autonomo o coordinato, dovrebbe essere assoggettato a quella diligenza di carattere tecnico, poiché appartenente alla classe di coloro che esercitano una determinata professione e che le regole del mestiere devono applicare. Inoltre, il debitore nell’atto di assumere l’obbligazione promette di eseguire la prestazione a regola d’arte. Così, la diligenza del lavoratore coordinato si può valutare secondo i parametri dell’art. 2104 cod. civ., tenendo ben a mente la disciplina delle obbligazioni in genere. L’oggetto dell’obbligazione che sta alla base del rapporto sinallagmatico di credito a debito, non può, in ogni modo, prescindere dal carattere diligente nello svolgimento dell’opera, qualunque sia la tipizzazione contrattuale stipulata dalle parti. Tuttavia, va specificato che nei rapporti di lavoro la diligenza richiesta al debitore d’opera è diretta alla soddisfazione dell’interesse e dell’aspettativa del creditore all’esatto adempimento dell’obbligazione; così la diligenza definisce astrattamente un modello tipico di condotta la quale, a sua volta, si articola praticamente in comportamenti specifici, adeguati alla natura della prestazione ma commisurati a ciò che normalmente accade nell’ambito delle relazioni sociali e dunque delle obbligazioni aventi ad oggetto un’identica prestazione. Comunque, non è privo di significato che nel tentativo di precisare il carattere della diligenza, una parte della dottrina giuslavoristica, che pure mantiene ferma la differenza tra perizia e diligenza, ha ritenuto di concretizzare la diligenza, tramite il rinvio al concetto di lavoro effettivo, proprio alla disciplina degli orari di lavoro, così intendendo la diligenza richiesta al lavoratore come applicazione assidua e continuativa (art. 3, r.d.l.16 marzo 1923 n 692), non necessariamente subordinata in senso tecnico. Le garanzie di onestà, serietà, laboriosità e attaccamento al dovere che riguardano la figura morale di ogni prestatore d’opera , non possono prescindere dal tipo di contratto che vincola il lavoratore. Ma è una conclusione generalmente rifiutata dalla maggioranza della dottrina, che ha consolidato nel tempo l’idea di specifici oneri in capo solo al lavoro subordinato. Viceversa se si abbandona l’idea che la diligenza richiesta sia o abbia valore interiore, stato d’animo e tensione della volontà, e si accoglie l’idea che essa rappresenta piuttosto l’adozione di un contegno ed anzi di comportamenti specifici, non dovrebbero esservi difficoltà, né logiche né giuridiche, ad accogliere una articolazione differenziata della figura del debitore diligente in relazione alla prestazione dovuta , che può essere subordinata, autonoma e anche coordinata.

15. Le invenzioni del collaboratore a progetto





In merito alle invenzioni del lavoratore a progetto, l’articolo 65 D.Lgs. 276/03, riproducendo sostanzialmente l’art. 2590 del cod. civ. dettato per prestatori di lavoro, dispone che questi ha diritto di essere riconosciuto autore dell’invenzione fatta nello svolgimento del rapporto, e che la maternità è riconosciuta dalle leggi speciali “compreso quanto previsto dall’art. 12-bis della legge 22 Aprile 1941, n. 633” inserito in detta legge dall’art. 3 del D.Lgs. 22 Dicembre 1992 n. 518, secondo cui salvo patto contrario, il dipendente è titolare dei diritti esclusivi di utilizzazione economica del programma informatico da lui creato. Si tratta senza dubbio di una ipotesi di estensione (peraltro non richiesta dalla delega) di un precetto esistente per il lavoro subordinato consistente nella previsione di un diritto, in capo al collaboratore a progetto, di essere riconosciuto autore dell’invenzione fatta nello svolgimento del rapporto.

Rispetto alla disciplina codicistica è identico anche il rinvio, operato dal 2° comma della norma in esame, alle leggi speciali, compreso quanto previsto dall’art. 12 bis della legge 22 Aprile 1941, n 633. Infatti, la disciplina oggetto di rinvio è il RD 1127/1939, in tema di brevetti industriali, che regola diritti e doveri delle parti sulla base della nota triplice tipologia: le invenzioni di servizio, quelle aziendali e infine quelle occasionali.

Considerata la peculiarità del lavoro a progetto, può presumersi che la maggior parte delle invenzioni, ove ve ne siano, appartengono al terzo tipo. Anche se poi tutto dipende dalla configurazione che, nel caso di specie viene ad assumere l’indice del coordinamento. Comunque sia, anche disciplina si presenta in triplice modulazione, a seconda del tipo di invenzione: nella prima ipotesi tutti i diritti patrimoniali spettano al committente; nella seconda il committente mantiene tali diritti, ma il lavoratore ha diritto ad un “equo premio” proporzionato all’importanza dell’invenzione; nella terza ipotesi i diritti patrimoniali spettano al lavoratore, ma il committente ha il diritto di prelazione da esercitarsi entro tre mesi per l’uso della stessa o pere l’acquisto del brevetto.

Questo seppur breve cenno, non giustifica la lacuna che il decreto 273/03 ha lasciato in merito alla non considerazione della soluzione prevista dall’art. 4, legge 190/1985 sui quadri intermedi, che riconosce in via derogatoria alla contrattazione collettiva il potere di stabilire le modalità di valutazione ed il corrispettivo per l’utilizzo sia delle innovazioni di grande importanza, sia delle invenzioni non di servizio (quelle aziendali e quelle occasionali). Deve, tuttavia ritenersi, che nella misura in cui queste pattuizioni collettive risultino di maggior favore per il lavoratore, esse siano sempre ammissibili e a maggior ragione generalizzabili al di fuori dello stretto ambito del rapporto di lavoro subordinato.







16. Altri diritti del collaboratore a progetto: maternità, malattia ed infortunio





L’articolo 66 comma 1, 2 e 3 del D.Lgs. 276/2003 dispone che la gravidanza, la malattia e l’infortunio del collaboratore non comportano l’estinzione del rapporto di lavoro a progetto che rimane sospeso senza corresponsione del compenso.

Peraltro, la sospensione del rapporto per malattia e infortunio esclude la proroga della durata stabilita nel contratto che, salvo diversa previsione patrizia, si estingue alla scadenza del termine. Inoltre il committente può esercitare il recesso qualora la sospensione per malattia o per infortunio si protragga per un periodo ad un sesto della durata determinata nel contratto di lavoro a progetto, ovvero superiore a trenta giorni per i contratti di durata determinabile. Il D.Lgs. 276/2003, peraltro, ha differenziato la disciplina della gravidanza prevedendo che, in tale ipotesi, la durata del rapporto è prorogata per un periodo di centottanta giorni, salvo la più favorevole disposizione del contratto individuale.

Queste disposizioni, a prima lettura, non presentano difficoltà interpretative di particolare rilievo e si discostano in misura notevole dalla disciplina relativa al rapporto di lavoro subordinato. Al contratto di lavoro a progetto, ai sensi dell’articolo 66 comma 4, sono applicabili l’articolo 64 del D.Lgs. 26 Marzo 2001 n. 151 in materia di tutela della maternità; il decreto del Ministero del Lavoro e della previdenza sociale del 12 Gennaio 2001 sulla disciplina della tutela per malattia in caso di degenza ospedaliera, nonché, come sopra accennato, le norme sulla sicurezza e igiene del lavoro di cui al D.Lgs. 19 Settembre 1994 n. 626 e successive modifiche ed integrazioni e le disposizioni di tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. Trattasi di una estensione parziale del regime speciale lavoristico contenuto nell’art. 2110 cod. civ. a favore dei subordinati. Appunto, il comma 2 si occupa del coordinamento tra la produzione dell’effetto sospensivo e la durata del rapporto di lavoro, prevedendo che il committente possa recedere dal contratto se la sospensione si protrae per un periodo superiore a un sesto della durata nel contratto, quando essa sia determinata, ovvero superiore a trenta giorni per i contratti di durata determinabile.







17. Le collaborazioni senza progetto



L’art. 69 D.Lgs. 276/2003 è una delle disposizioni più discusse all’interno del decreto di riforma del mercato del lavoro. Tale articolo introduce, al primo comma, un meccanismo in forza del quale i contratti di collaborazione coordinata e continuativa instaurati senza l’individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso sono considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione.

La struttura lessicale utilizzata dal legislatore sembra lasciar intendere che si tratti di una presunzione assoluta, con la conseguenza che un eventuale contratto di lavoro di lavoro a progetto sprovvisto del “progetto, programma di lavoro o fase di esso” dovrebbe considerarsi come contratto di lavoro subordinato ex tunc.

Una simile interpretazione non è però immune da vizi di costituzionalità, sia per violazione del “principio della indisponibilità del tipo legale” , e sia per violazione degli art. 3 e 35 Cost. , in quanto le collaborazioni coordinate “genuine” verrebbero ad essere trattate come il lavoro subordinato, pur essendone strutturalmente diverse.

Proprio per evitare queste fondate censure, la circolare del Ministero del Lavoro afferma che l’art. 69¹ deve essere inteso come una presunzione iuris tantum, e, pertanto, sarebbe sempre e comunque consentito al datore di lavoro provare la natura autonoma della collaborazione oggetto del giudizio. Questo tipo di costruzione non convince appieno, perché se ancora permane, per il committente, uno spazio di prova diretto all’affermazione in giudizio della natura autonoma della collaborazione, si tratterebbe di un principio contrario all’art. 86, comma primo del decreto legislativo, che sancisce la decadenza delle collaborazioni continuative e coordinate in corso non riconducibili a un progetto .

Al secondo dell’art. 69, è invece disciplinata una fattispecie diversa, attinente all’ipotesi in cui le parti, dopo aver stipulato un regolare contratto di collaborazione a progetto, con tutti i necessari elementi qualificatori, pongano in essere un rapporto di lavoro che nelle sue concrete modalità attuative integra un rapporto di lavoro subordinato. In questo caso, è prevista la trasformazione del contratto a progetto nella tipologia negoziale di fatto realizzatasi tra le parti.

Il terzo comma dell’articolo in esame statuisce il principio della insindacabilità, da parte del giudice, delle scelte e valutazioni tecniche, organizzative o produttive del committente. Si tratta di un principio generale che parte della dottrina ha collegato al comma secondo dell’art. 69, mentre altri autori lo hanno connesso al primo comma del medesimo articolo.

In realtà, il principio della insindacabilità delle scelte imprenditoriali, è già desumibile in generale dall’art. 41 Cost., ma resta comunque nei pieni poteri del giudice la qualificazione di un contratto in relazione all’effettivo svolgimento del rapporto di lavoro, ed indipendentemente dal nomen attribuitogli dalle parti contrattuali.







18. Rinunzie e transazioni



Particolarmente problematico è l’art. 68 D.Lgs. 276/2003, inerente alla possibilità per le parti di un contratto di lavoro a progetto di rendere oggetto di rinunzie e transazioni i diritti introdotti dal capo I del titolo VII del D.Lgs. 276/2003 in sede di certificazione del rapporto.

La prima interpretazione di tale norma, con l’intento di riconoscere una qualche specificità all’articolo in esame rispetto all’art. 82 dello stesso decreto ed all’art. 2113 c.c, ha ritenuto che le “rinunzie e transazioni” di cui all’art. 68 possano avere ad oggetto anche diritti non ancora maturati . Si tratterebbe, in altre parole, di una forma di deregolazione assistita , in forza della quale le parti potrebbero “flessibilizzare” il rapporto sostanzialmente senza limiti . Per sostenere tale interpretazione si è dovuto peraltro considerare del tutto erroneo il richiamo dell’art. 68 alle rinunzie e transazioni , per l’ovvia considerazione che la certificazione delle rinunzie e transazioni non può intervenire nel momento di costituzione del rapporto, ma solo in un momento successivo, e cioè durante lo svolgimento del rapporto stesso.

Come è stato efficacemente evidenziato, se così interpretata, si tratterebbe di “una norma autodistruttiva” perché le parti potrebbero porre nel nulla tutta la struttura legale di tutela del collaboratore. Aldilà di tale considerazione, pare invece possibile una interpretazione alternativa dell’art. 68.

A ben vedere l’inciso dell’art. 68 “in sede di certificazione” va inteso come “innanzi alle commissioni di certificazione” e non “in occasione della certificazione del contratto”. In questo modo la fattispecie in esame rientrerebbe nel campo della disposizione dei diritti già maturati, e garantiti da norme inderogabili, con la conseguenza che il richiamo dell’art. 68 alle rinunzie e transazioni sarebbe del tutto corretto.

Partendo da tale presupposto si tratta poi di capire se la certificazione assolva, in questo caso, ad una mera funzione confermativa della volontà delle parti (come per l’art. 82), o se invece possa affermarsi che le rinunce e transazioni effettuate dinanzi alle commissioni di certificazione siano inoppugnabili come avviene per quelle effettuate ai sensi dell’art. 2113, quanto comma, c.c.

A sostegno di questa costruzione ci sono argomenti sia di ordine logico che di ordine testuale.

Da un primo punto di vista, sostenere che l’art. 68 integri soltanto un’ipotesi di conferma della volontà transattiva o abdicativa, equivale a svuotare di significato lo stesso art. 68, il quale non avrebbe alcun valore innovativo, ma sarebbe una semplice ripetizione di quanto sancito in via generale dall’art. 82.

Da un secondo punto di vista occorre notare che la sede di certificazione competente a certificare le rinunzie e transazioni è soltanto quella di cui all’art. 76, comma primo, lett. a), ovvero gli “enti bilaterali”. Tali enti sono definiti dall’art. 2, comma prima, lett. h), come “organismi costituiti a iniziativa di una o più associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative, quali sedi privilegiate per la regolazione del mercato del lavoro”, e pertanto può notarsi che la loro composizione è simile a quella delle Commissioni istituite presso la Direzione Provinciale del Lavoro, e comunque si tratta di una composizione che garantisce in modo pieno il lavoratore, assistendolo nella sua volontà rinunciativa o transattiva .

Pertanto, pare possibile affermare che l’art. 68 D.Lgs. 276/2003 introduca una nuova procedura che si aggiunge a quelle già previste dal quarto comma dell’art. 2113 c.c. . Una procedura idonea a rendere inoppugnabili ed irrevocabili gli effetti delle rinunzie e transazioni effettuate in tali sedi

Ulteriore conseguenza è che saranno totalmente nulle le rinunzie a diritti futuri, mentre saranno rinunziabili tutti i diritti previsti nel titolo VII capo I, con il solo limite della nullità degli atti abdicativi a posizioni previdenziali o contributive o comunque relativi a diritti fondamentali.

Da ultimo, pare assolutamente condivisibile la considerazione in forza della quale l’impugnazione dell’atto certificativo effettuato ai sensi dell’art. 80 D.Lgs. 276/2003, non possa riguardare le rinunzie e transazioni concluse ai sensi dell’art. 68, perché, come già detto, tali atti abdicativi sono inoppugnabili .





19. Conclusioni: il lavoro a progetto tra coordinamento e struttura aziendale.



Il lavoro a progetto, complessivamente considerato, introduce una nuova disciplina che, come si è tentato di evidenziare, pone all’interprete una serie di dubbi (anche costituzionali) di notevole importanza ed al contempo raggiunge solo in parte gli obiettivi prefissati dal legislatore.

Si tratta in conclusione di capire se l’applicazione pratica dell’istituto possa portare ad effetti in un certo senso perversi, in particolare tenendo conto della struttura e della conformazione dell’assetto industriale italiano.

Deve infatti notarsi come sia possibile una applicazione differenziata (ma si potrebbe anche parlare di “dissimulazione privilegiata”) della nuova disciplina del lavoro a progetto nella piccola impresa piuttosto che nella media – grande impresa.

Le differenza strutturali tra piccole e medie – grandi imprese sono evidenti e conosciute, ma può apparire utile un tentativo di correlazione tra l’aspetto dimensionale (e la complessità strutturale) dell’impresa ed i possibili limiti all’applicazione del lavoro a progetto, soprattutto sul versante del contenuto effettivo del progetto e sulla questione della “innovatività” e “specificità” del progetto stesso.

Una attenta analisi della struttura aziendale delle piccole imprese induce a ritenere che potranno concludere contratti di lavoro a progetto solo laddove sia individuabile un progetto sostanzialmente “nuovo” rispetto all’attività tipica dell’impresa ovvero in relazione a collaboratori con un grado di professionalità elevato (e/o una forte specializzazione) non presente in azienda. Quindi nella piccola impresa si realizzerebbe in modo assolutamente penetrante la volontà antielusiva sottesa al nuovo istituto, con tratti di tale incidenza da indurre a ritenere fondati i dubbi di ingessamento del mercato del lavoro e della stessa iniziativa economica privata (pur costituzionalmente garantita dall’art 41 Cost.).

Viceversa nella media impresa, ma soprattutto nella grande impresa, ci si trova di fronte ad una struttura aziendale certamente più complessa. La parcellizzazione dei processi produttivi, la specializzazione settoriale, la quantità di beni o servizi prodotta, le prospettive di sviluppo ed in genere tutta l’organizzazione del lavoro aziendale, sono di dimensioni tali da indurre a considerazioni differenti (per non dire opposte) rispetto a quelle già esaminate per le piccole imprese.

La spinta di innovazione e sviluppo, che permea il substrato della grande impresa, può portare a ritenere possibile la stipulazione di contratti di lavoro a progetto non solo relativamente ad attività estranee al programma aziendale (o relativi a collaboratori altamente professionalizzati), ma relativamente a “procedimenti incidentali” rispetto alla tipica attività aziendale, i quali, pur essendo formalmente autonomi (almeno dal punto di vista giuridico) non sono completamente sganciati (almeno dal punto di vista economico – produttivo) dalla detta attività dell’azienda.

In altri termini si vuole qui sostenere che la complessità della struttura aziendale può essere utilizzata per permettere una applicazione su vasta scala della nuova fattispecie, “diluendo” nel progetto riferimenti a risultati che risentono strettamente del programma aziendale, ma che al tempo stesso se ne differenziano dal punto di vista formale.

Il lavoro a progetto, pertanto, rischia di avere una applicazione differenziata a seconda della complessità aziendale, tanto che potrebbe sostenersi l’esistenza di una relazione di proporzionalità inversa tra il contenuto innovativo - individuale del progetto (e/o la professionalità del collaboratore) e la struttura dell’azienda, nel senso che man mano che si passa dalla semplice impresa individuale con struttura aziendale semplice e lineare fino ai grandi gruppi internazionali di imprese con strutture aziendali e procedimenti produttivi estremamente complessi, il contenuto del progetto diventa sempre meno individuale e l’alta professionalità del collaboratore sempre meno indispensabile perché sostituito (e sostenuto) dalla complessità della struttura aziendale. In quest’ultima ipotesi la linea di demarcazione tra collaboratore a progetto e lavoratore subordinato è davvero sottile ed incerta ma comunque si tratta di una situazione che, con molta probabilità, vedrà i collaboratori new style ancora svantaggiati.

Tirando le somme, il pericolo concreto è che il giro di vite all’abuso dell’utilizzo delle collaborazioni si verifichi esclusivamente nei confronti delle piccole imprese, ma al tempo stesso si rischia un “azzeramento” di tale effetto relativamente alle grandi imprese, con un possibile risultato finale di non diminuzione ma anzi di aumento dell’utilizzo delle collaborazioni coordinate e continuative a progetto, con l’aggravante della piena corrispondenza alla nuova disciplina.





NOTE



* Masterizzandi in “Scienze applicate del lavoro e della previdenza sociale” presso l’Università degli studi di Roma “La Sapienza”; collaboratori presso il Ministero del Lavoro.

Cfr., VALLEBONA, La riforma dei lavori, Padova, 2004, 21; SANTORO PASSARELLI G., Prime chiose alla disciplina del lavoro a progetto, in Arg. Dir. Lav., 2004, I, par. 1

BALLESTRERO M.V., “L’ambigua nozione di lavoro parasubordinato” , in LD, 1987, 1, p 42ss

Cfr., SANDULLI P. , “ In tema di collaborazione coordinata e continuativa”, in DL, 1982, p 247ss

SANDULLI P., op. cit. ,p247

SANTORO PASSARELLI G. “Il lavoro parasubordinato” 1979 p 18.

V. Cass. 22 luglio 1976 n 2096, in FPAD, 1976 1; Cass. 24 aprile 1976 n 1473, ivi, 1, c 180

SANTORO PASSARELLI G. , “Il lavoro parasubordinato”, 1979, p 66-70

SANTORO PASSARELLI G., op. cit,. p 69 ss.

GHERA , Diritto del lavoro, 1982, p. 50

SANDULLI P. , Il lavoro autonomo, p 1419, vers. 1986

SANTORO PASSARELLI G. op. ult. cit., p.10; SCOGNAMIGLIO, Diritto del lavoro, Bari, 1972, p. 22 e nota 26 del medesimo.

GHEZZI, “ L’art. 46 della Costituzione”, in Commentario alla Costituzione, Zanichelli 1980 p 56; per la versione più raffinata della teoria della dipendenza come dato inerente al contesto socio economico , v. soprattutto F. MAZZIOTTI, Contenuto ed effetti del contratto di lavoro, 1964 p 66 77, ; SANTONI, La posizione soggettiva del lavoratore dipendente, 1979 particolarmente p 95-105 e 188-198; CHIUSOLO, Il lavoro subordinato e le nuove forme di organizzazione del lavoro, 1987 p 123; La posizione di dipendenza socio economica del lavoratore è invece indicata come tratto distintivo comune al lavoro subordinato e al lavoro parasubordinato di SANTORO PASSARELLI in op. cit. e particolarmente alle pagine 117-118 e 132 137. Un significato totalmente diverso è stato attribuito da SPAGNOLO VIGORITA in Relazione AA. VV, Autonomia e subordinazione pp31-32, dove il concetto di prestazione dipendente, viene contrapposto alla prestazione subordinata dedotta in contratti di tipo associativo, in cui l’elemento forte della direzione non riesce ad operare con attendibile efficacia qualificativa.

ICHINO P. “Subordinazione e autonomia nel diritto del lavoro” 1989 p 80

ARANGUREN “La qualifica nel contratto di lavoro” in Lav. Dir., 1961 p21, ritiene che la collaborazione tra creditore della prestazione e debitore assurga nel contratto di lavoro ad una rilevanza essenziale. Infine sembrano essere su posizioni simili (seppure con presupposti qualche volta diversi) e in ordine all’elemento della collaborazione nel contratto di lavoro, RABAGLIETTI, Contratto con comunione di scopo, in Dir. Lav, 1961 p 149.

L’espressione è di BARASSI, in Lav. Dir., p. 352.

SANTORO PASSARELLI G, op. cit., p 19, sull’individuazione del contraente debole rispetto alla grande impresa, v. LISERRE, Tutele costituzionali dell’autonomia contrattuale, Milano 1971 p 50; e vedi anche COSTANTINO in Regole di gioco e tutela del più debole nell’approvazione del programma contrattuale, Riv. Dir. Civ. 1972 p 68. La dottrina giuslavoristica degli inizi del secolo scorso aveva sottovalutato quest’aspetto del problema , poiché riteneva libero contraente il prestatore di lavoro che con il contratto si sottoponeva volontariamente alla signoria del datore di lavoro. Inoltre le ulteriori clausole imposte in un contratto non furono ritenuti dalla dottrina del tempo come elementi di debolezza contrattuale. V. BARASSI, in Il contratto nel diritto positivi italiano, 2 ed, I Milano, 1915, p 662, considerava la subordinazione uno stato voluto dal lavoratore.

SANTORO PASSARELLI, op. ult. cit., p. 23.

TORRENTE , “Contratti di scambio”, in Manuale di diritto privato, § 312

IRTI N. “L’interpretazione del contratto” , 1995

SANTORO PASSARELLI, ult. op. cit., p. 30

LEONARDI SALVO, “Il lavoro coordinato e continuativo, profili giuridici e aspetti problematici” in RGL, n 3 1999

RIVA SANSEVERINO, “Il lavoro nell’impresa”, p. 285

PERSIANI M., “Contratto di lavoro e organizzazione dell’impresa”, p. 195.

v. in tal senso soprattutto E. SARACINI, Il contratto d’agenzia, 1987, pp129-141. Ne sono conferma gli accordi collettivi per gli agenti autonomi del settore industria e del commercio, i quali entrambi, all’art 1, indicano come tratto distintivo della figura dell’agente l’assenza di obblighi di orario di lavoro e di itinerari predeterminati. Sostanzialmente nello stesso senso, giurisprudenza e dottrina in tema di agenti, rappresentanti di commercio, propagandisti scientifici, venditori porta a porta. È interessante osservare come lo stesso criterio sia indicato, per la distinzione dell’agente autonomo da quello subordinato, nell’ordinamento della RTF, dal § 84 del codice del commercio.

Cass. 26 maggio 1983 n 3650 un MGI 1983 c 960, La previsione di un orario di lavoro per la prestazione lavorativa costituisce sicura estrinsecazione del poter direttivo del creditore del servizio, quando sia espressione dell’autonomia decisionale nell’organizzazione aziendale, non quando inerisca alla prestazione richiesta, tale da dover essere espletata, per sua natura o per fattori estranei alle parti, in tempi non modificabili, che l’imprenditore o il lavoratore autonomo, debitori del risultato, sono obbligati a rispettare.

Identica massima in Cass. 27 maggio 1987 n 4752, ivi 1987 c 753; Cass. 5 dicembre 1988 in DPL 1989 p 945, v. inoltre P. pen. Langhirano 1° giugno 1985, in RIDL, 1986 II p 522, dove il giudice, in riferimento alla figura del sugnatore di prosciutti, vincolato solo a prestare la sua opera nell’ambito dell’orario di apertura dell’azienda, ma non soggetto ad alcun coordinamento temporale interno della prestazione, ha considerato tale vincolo compatibile con l’autonomia della prestazione.

VENEZIANI B. “I controlli dell’imprenditore e il contratto di lavoro”, 1975, p 60-118.

ICHINO P., “Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro”, 1984, Milano, p28 ss.

GHERA in “Diritto del lavoro”, 1990, Bari, p. 54 ss.

FERRARO, “Dal lavoro subordinato al lavoro autonomo”, particolarmente nel § 4 la parabola della parasubordinazione p. 456.

PEDRAZZOLI M., in “Novissimo Digesto”, 1986, Il lavoro Coordinato, § 3 p 354

SANDULLI P., “Il lavoro autonomo e parasubordinazione”, 1984, p. 150

RESCIGNO, “Le obbligazioni” in Manuale di diritto privato.

V. P. ICHINO, “Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro”, 1984, p. 35

SANDULLI P., “Tempo e durata della prestazione di lavoro”, Roma, 1979.

In tal senso vedi Cass. 5 giugno 1964 n. 1370 in Foro It. del 1964, 1,1394 di conferma Corte di Appello di Roma 13 luglio 1961 in Foro It.

SANDULLI P., vedi ult. Op. cit.

SANTORO PASSARELLI, ult.op.cit.

OPPO G., “I contratti di durata”.

SANTORO PASSARELLI G., ult. Op. cit.

GIACOBBE, “Il lavoro autonomo”, in ENC. Dir., XXIII, Milano, 1973.

Infatti in tal caso il lavoro svolto dall’imprenditore deve avere carattere prevalente: art. 2083 cod. civ. ; Cass. 3-10-1974 n 2568, in Mass. Giust. Civ., 1974 1157.

DE NOVA, “Il tipo contrattuale”, Padova, 1974.

GIACOBBE, op. ult. Cit.; Cass.26 11.1954n 4320; Cass. 25.5.1956. n 1791; Cass. 16.6.1989 n 2916.

RIVA SANSAVERINO, “Lavoro autonomo” in Comm. Scialoja e Branca, Roma, 1980.

BALLESTRERO M.V, “L’ambigua nozione di lavoro parasubordinato”, op. cit,.

ALLEVA E D’ANTONA “Ridefinizione della fattispecie di contratto di lavoro” in Novissimo Digesto delle discipline civilistiche, sez. comm. § 2 p 432. Un rilievo critico più approfondito meriterebbe la proposta di D’Antona proprio sul piano della tecnica definitoria. Non consta che si presuma la ricorrenza di una fattispecie contrattuale; ad. Es. la onerosità del mandato (art. 1709 cod. civ.) o la gratuità del deposito, ma come si fa a presumere la fattispecie non tipizzata, lasciata in bianco? E poi di che natura è tale presunzione? Se fosse codificata, non sarebbe, una presunzione semplice ex art. 2729 cod. civ da ammettersi solo se grave, precisa e concordante, ma una presunzione legale: ma la presunzione legale ha la funzione di modificare la ripartizione dell’onere della prova, o comunque di limitare o ridurre gli oneri probatori del ricorrente- come accade ad.es. con l’art. 4 punto 5 l..n. 125/1991- non quella di fornire la prova di un fatto. La proposta pare, dunque, ingenerare nel lettore una certa confusione tra fenomeno probatorio inscrivibile nel novero delle presunzioni semplici e meccanismo modificativo degli oneri probatori tipico delle presunzioni legali.

DE LUCA TAMAJO, FLAMINIA, PERSIANI, in “La crisi della nozione di subordinazione” Novissimo digesto, 2000. Lo stesso SANTORO PASSARELLI, in Flessibilità e subordinazione, QDLRI, 1998 p 66, nota che: sembra meno convincente il tentativo di ricondurre nel tipo del lavoro coordinato, quei rapporti che, pur essendo contrassegnati da forti dosi di autonomia nell’esecuzione della prestazione lavorativa, sono tradizionalmente qualificati di lavoro subordinato. In questo secondo caso la riconduzione del rapporto al lavoro coordinato non dipenderebbe da reali esigenze d’inquadramento, ma sarebbe piuttosto finalizzata a smobilitare una serie di tutele nei confronti di certe categorie di lavoratori..

La crisi della nozione di subordinazione e della sua inidoneità selettiva dei trattamenti garantistici. Prime proposte per un approccio sistematico in una valorizzazione di un tertium genus: il lavoro coordinato, LI 1996 p 75 ss. La precisazione metodologica di cui al testo è di M. PEDRAZZOLI, Consensi e dissensi.. p 23; a ben vedere però anche la proposta del lavoro senza aggettivi, comporta comunque l’individuazione di una pluralità di fattispecie cui imputare i vari livelli di disciplina, in tal senso Tosi, in La distinzione tra autonomia e subordinazione, QDLRI; 1988, p 46.

DE LUCA TAMAJO, “Per una revisione delle categorie qualificatorie del diritto del lavoro: l’emersione del lavoro coordinato”, ADL, 1997, p 59 s.

E. GHERA, 1999 pag. 487

Crea, invece, una relazione fra il tempo impiegato e la continuità della collaborazione, DE LUCA TAMAJO, 2003, pag. 17.

G. SANTORO PASSARELLI “Il lavoro parasubordinato” ed. 1978

Data di entrata in vigore del nuovo Codice di Procedura Civile, che con la legge 533/73 ha introdotto all’art. 409 comma 3, come soggette al rito del lavoro, le collaborazioni coordinate e continuative a carattere prevalentemente personale.

La novella Legge 335/95 di riforma del sistema pensionistico, ha istituito un’apposita sezione di gestione separata per la contribuzione previdenziale dei collaboratori coordinati e continuativi, fissando nell’aliquota del 10%, l’obbligo contributivo a cui soggiacevamo datori di lavoro e collaboratori coordinati.

TOSI, Appalto, distacco, lavoro a progetto nel recente decreto di riforma: appunti da una conferenza, in Lav. Giur., 2004.

SANDULLI, La riforma delle collaborazioni continuative e coordinate: il nuovo “lavoro a progetto”, Relazione svolta al Convegno organizzato a Milano da Paradigma nell’ottobre 2003.

DE LUCA TAMAJO, Dal lavoro parasubordinato al lavoro “a progetto”, W. P. del Centro Studi di Diritto del lavoro europeo “Massimo D’Antona” n. 25, 2003, 12; PINTO, Le collaborazioni coordinate e continuative e il lavoro a progetto, in Lavoro e diritti dopo il decreto legislativo 276/2003, a cura di P. Curzio, Bari, 2004, Cap. III, par. 12;. Altra dottrina parla del lavoro a progetto come figura tipica rientrante nei sottotipi del lavoro autonomo, cfr. SANTORO PASSARELLI G., Prime chiose alla disciplina del lavoro a progetto, cit., par. 15; PROIA, Lavoro a progetto e modelli contrattuali di lavoro, in Arg. Dir. Lav., 4, 2003, par. 10; LEONE, Le collaborazioni (coordinate e continuative) a progetto, in Riv. Giur. Lav., 2004, n. 1, 87 ss. Di figura ibrida ma integrante sostanzialmente un nuovo tipo contrattuale parla LUNARDON, Art. 61-69. Tipologie contrattuali a progetto e occasionale. Certificazione dei rapporti di lavoro, in Commentario al D. Lgs. 276/2003, coordinato da Franco Carinci, Milano, 2004.

DE LUCA TAMAJO, Dal lavoro parasubordinato al lavoro “a progetto”, cit.. Parzialmente nello stesso senso PEDRAZZOLI, “Tipologie contrattuali a progetto e occasionali. Commento al Titolo VII del D.Lgs. 276/03”, in Il nuovo mercato del lavoro. D.Lgs. 10 settembre 2003 n. 276, AA.VV., Zanichelli, 2004, 657 e segg.; Id., WP C.S.D.L.E. «Massimo_D’Antona», n. 29/2004, www.lex.unict.it/eurolabor/ricerca/presentazione, il quale individua una fattispecie nella collaborazione coordinata e continuativa di cui all’art 61 ed un’altra fattispecie nel contratto di lavoro a progetto di cui all’art. 62.

Esclude che si tratti di una fattispecie tipica TIRABOSCHI, Il Lavoro a progetto e le collaborazioni occasionali, in Guida al lavoro, 4, pp. 107 ss..

Il concetto della rilevanza della categoria della parasubordinazione ai soli fini processuali e non ai fini sostanziali è stato affermato anche dalla Corte Costituzionale, sent. n. 365/1995.

La continuità del lavoro parasubordinato si traduce nell’appartenenza al novero dei contratti di durata, mentre comunemente il contratto d’opera rientra nella categoria dei contratti ad esecuzione istantanea seppur prolungata. Cfr. per entrambe le questioni, SANTORO PASSARELLI G., Il lavoro parasubordinato, Milano, 1979, p. 60 e segg.

Nel senso che nel rapporto di lavoro parasubordinato sussiste un potere del prestatore di lavoro di determinazione autonoma o d’accordo con il prestatore di lavoro in ordine alle modalità e altresì al tempo ed al luogo della prestazione pur permanendo sempre “un potere si conformazione del committente”, SANTORO PASSARELLI G., op ult. cit. 97 e ss., mentre nel contratto d’opera, come evidenziato da DELL’OLIO, I soggetti e l’oggetto del rapporto di lavoro, Torino, 2003, p. 13, le condizioni di esecuzione dell’opera possono essere stabilite solo nel contratto (art. 2224¹ c.c.) e “possono essere controllate solo staticamente e dall’esterno dal committente, al fine di rimedi a loro volta statici o se si vuole distruttivi”, ma tali condizioni non potranno giammai essere giammai essere dinamicamente decise di volta in volta dall’accordo delle parti.

LUNARDON, Art. 61-69. Tipologie contrattuali a progetto e occasionale. Certificazione dei rapporti di lavoro, cit., 5.

ICHINO, Il vero strappo è un’altra rigidità, in “Il Corriere della sera” dell’8/06/2003, parla di un vero “polmone di flessibilità”.

Sull’occasionalità come indice utilizzato dalla giurisprudenza per escludere in via interpretativa il requisito della “continuità” proprio del lavoro parasubordinato v., tra le altre, Cass. n. 9067 del 01/09/1990 in Mass. Giur, Lav., 1990, suppl., 120; Cass. n. 3298 del 10/04/1996 in Mass. Giur. Lav., 1996, suppl., 44.

Parlano del requisito economico e del requisito temporale come “doppio vincolo” , DEGAN e TIRABOSCHI, Occasionale con doppio vincolo, in “Il Sole 24 Ore – Le Guide Operative”, settembre 2003, 814, sottolineando come in tal modo si riesca ad evitare la possibile concentrazione fittizia, entro l’arco di durata previsto dalla norma, di prestazione aventi in realtà una superiore estensione temporale.

La norma sembra riferirsi ai “giorni lavorati”, cfr. MISCIONE, Il collaboratore a progetto, in Lav. Giur., 2003, 9, 816, e comunque il limite massimo di 30 giorni va calcolato con riferimento allo stesso committente, cfr. DE FUSCO, CACCIAPAGLIA e PIZZUTI, Le collaborazioni dopo la riforma del mercato del lavoro, in Guida al lavoro, 2003, XV.

L’importo massimo va riferito alla somma di tutti i redditi derivanti dalle varie collaborazioni occasionali, cfr. TARTAGLIONE, Il contratto a progetto nella riforma Biagi, in Guida al lavoro, parte V.

L’art. 81 comma 1 lett. l) del t. u. imposte dirette (TUIR) approvato con d.p.r. 917/1986, relativo al “lavoro autonomo occasionale”, riferisce l’occasionalità alla saltuarietà e non programmabilità della prestazione e riguarda attività diverse da quelle svolte abitualmente dal lavoratore autonomo.

Significativamente la circolare del Ministero del Lavoro n. 1 dell’8 Gennaio 2004 relativa alla “Disciplina delle collaborazioni coordinate e continuative nella modalità c.d. a progetto” definisce il nuovo istituto come collaborazioni coordinate e continuative a carattere occasionale.

Secondo la descrizione di BIAGI, Competitività e risorse umane: modernizzare la regolazione dei rapporti di lavoro, in Riv. It. Dir. Lav., 2001, 9, 94, “si tratta di una complessiva rivalutazione del diritto del lavoro che da un lato amplia l’ambito di applicazione dei livelli minimi di tutela, mentre dall’altro circoscrive e rende più moderne le tecniche di tutela del lavoro subordinato”.

LUNARDON, Art. 61-69. Tipologie contrattuali a progetto e occasionale. Certificazione dei rapporti di lavoro, cit., 8, che rileva anche il pericolo di un ritorno “al tempo in cui la giurisprudenza nelle ipotesi dubbie utilizzava la presunzione di subordinazione”.

Sulla sostanziale continuità tra vecchie co.co.co. e lavoro a progetto cfr., tra gli altri, TOSI, Appalto, distacco, lavoro a progetto nel recente decreto di riforma: appunti da una conferenza, cit.; VILLANI, Il lavoro a progetto, in Commento al D. Lgs. 10 settembre 2003 n. 276, diretto da Magnani e Varesi, Torino, 2004.

In seguito alla novella dell’art. 409 c.p.c. effettuata con la legge 533/1973 si sono estese alle collaborazioni coordinate e continuative la disciplina processuale del rito del lavoro e la disciplina sostanziale su interessi e rivalutazione monetaria di cui all’art. 429³ c.p.c. nonché la disciplina delle rinunzie e transazioni per la modifica, effettuata dalla stessa legge 533, dell’art. 2113¹ con il puntuale richiamo all’art. 409 n. 3 c.p.c..

PROIA, Lavoro a progetto e modelli contrattuali di lavoro, cit., parla in particolare delle “forme di coordinamento”.

SANTORO PASSARELLI G., Prime chiose alla disciplina del lavoro a progetto, cit., par. 2.

LUNARDON, Art. 61-69. Tipologie contrattuali a progetto e occasionale. Certificazione dei rapporti di lavoro, cit., 21

Così GAROFALO D., Statuto protettivo del lavoro parasubordinato e tutela della concorrenza, in Mercato del lavoro. Riforma e vincoli di sistema, Napoli, a cura di De Luca Tamajo, Rusciano e Zoppoli, 2003, 215 ss..

Sent. Corte Costituzionale n. 115 del 31/03/1994 in Riv. It. Dir. Lav., 1995, II, 227

MISCIONE, Il collaboratore a progetto, in Lav. Giur., 2003, 9., 815

Nella circolare 1/2004 del Ministero del Lavoro si giustifica l’esclusione con il minor rischio di simulazione del lavoro autonomo con finalità elusive della disciplina tipica del lavoro subordinato.

Relazione n. 113 del Presidente del Consiglio dei Ministri che accompagna il testo del 31 luglio 2003.

Propende per l’estensione dell’esclusione dalla normativa a progetto anche agli “amministratori, sindaci o revisori di associazioni e altri enti con o senza personalità giuridica”, in virtù della sostanziale equiparazione tra tali soggetti espressamente previsti dalla norma fiscale e l’omologa figura dei soggetti componenti organi societari amministrativi e di controllo, CASTELVETRI, in “La riforma Biagi del mercato del lavoro: prime interpretazioni e proposte di lettura del D. Lgs. 276/2003, il diritto transitorio ed i tempi della riforma”, a cura di M. TIRABOSCHI, p. 148.

Critico MISCIONE, Il collaboratore a progetto, cit., il quale afferma che per i collaboratori a giornali o riviste “si dovrebbe porre l’alternativa fra la predisposizione di un “programma o progetto” di difficile o impossibili definizione, e la subordinazione, che molto spesso non ha alcun senso”.

Cfr. CASTELVETRI, in “La riforma Biagi del mercato del lavoro: prime interpretazioni e proposte di lettura del D. Lgs. 276/2003, il diritto transitorio ed i tempi della riforma”,cit., p. 146.

SANDULLI, La riforma delle collaborazioni continuative e coordinate: il nuovo “lavoro a progetto”, cit., il quale evidenzia come questa progressiva separazione sia iniziata “con una legge tributaria di accompagnamento della finanziaria per il 2000 per effetto della quale il reddito degli sportivi dilettanti è stato ricondotto nella categoria dei redditi diversi secondo il Tuir (art. 81), con effetto di esclusione dei detti soggetti dal sistema previdenziale”.

In senso parzialmente contrario, SANDULLI, op. ult. Cit., evidenzia come l’esclusione in oggetto sia “assolutamente disarmante”, non potendo essere utilmente spiegata con il solo riferimento alla possibilità di cumulo del trattamento pensionistico con il reddito dal lavoro autonomo.

Sull’inapplicabilità del D. Lgs. 276/2003 alle pubbliche amministrazioni ed al loro personale v., per tutti, GRANGNOLI, Il rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni, in M.T. CARINCI (a cura di), La legge delega in materia di occupazione e mercato del lavoro, Milano, 2003, 245.

VALLEBONA, La riforma dei lavori, cit., 23.

Segno evidente ne è la cd. contrattualizzazione del pubblico impiego.

RUSCIANO, L’impiego pubblico in Italia, Bologna, 1978, 268 ss.

Cfr. Cass. n. 7181 del 24 giugno 1995, in EP, 1996, 598.

Cfr. Cass. n. 5414 del 2 giugno 1999, in Mass., 1999.

Per l’inapplicabilità dell’art. 2126 c.c. ai co.co.co. v. Cass., n. 8471 del 21 giugno 2000.

Cfr. art. 48 L. 833/1978 e D.P.R. 613/1996

SALOMONE, Rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, in Il diritto del lavoro nelle pubbliche amministrazioni, diretto da F. CARINCI E L. ZOPPOLI, Torino, 2004.

Cfr. MISCIONE, Il collaboratore a progetto nelle pubbliche amministrazioni, in Lav. Giur., 2003, 1023 ss.

Tali requisiti sono stati anche inaspriti dalla giurisprudenza contabile che ha imposto la straordinarietà e l’eccezionalità delle esigenze da soddisfare e la mancanza di strutture e di apparati preordinati al loro soddisfacimento, cfr. Corte dei Conti, n. 9 dell’8 gennaio 2003.

Nello stesso senso parla “un’inutile complicazione”, ZOPPOLI, Nuovi lavori e pubbliche amministrazioni (ovvero Beowulf versus grendel, atto II), Intervento al Convegno “Sviluppo e occupazione nel mercato globale”, Napoli, dicembre 2003. Contra MAINARDI, L’esclusione del pubblico impiego, in Il lavoro nelle P.A., 2004, 1107, il quale pur partendo da eguali premesse giunge alla conclusione della mancanza di reale giustificazione dell’esclusione del lavoro a progetto.

MISCIONE, Il collaboratore a progetto, cit., 816.

LUNARDON, Art. 61-69. Tipologie contrattuali a progetto e occasionale. Certificazione dei rapporti di lavoro, cit., 43.

Attualmente lo schema di decreto correttivo è sottoposto al parere delle Commissioni Parlamentari, ed è oggetto di incontro con le parti sociali. Lo schema di decreto correttivo è disponibile sul sito del Ministero del lavoro www.welfare.gov.it

LUNARDON, Art. 61-69. Tipologie contrattuali a progetto e occasionale. Certificazione dei rapporti di lavoro, cit., 26.

Cass. n. 9550 del 09/10/1995, in Giust. Civ. Mass. 1995, 1622; Cass., n. 5805, in Giust. Civ. Mass., 1985.

SANTORO PASSARELLI G., Prime chiose alla disciplina del lavoro a progetto, cit., par. 2; GHERA, op. loc. cit.

La giurisprudenza in precedenza era giunta ad escludere la parasubordinazione in caso di opus unico anche se articolato in più fasi esecutive, Cass., n. 3064 dell’11/04/1990, in Mass. Giur. Lav., 1990, suppl., 120.

SANTORO PASSARELLI G., Prime chiose alla disciplina del lavoro a progetto, cit.

PROIA, Lavoro a progetto e modelli contrattuali di lavoro, cit.; DE LUCA TAMAJO, Dal lavoro subordinato al lavoro “a progetto”, cit..

MISCIONE, Il collaboratore a progetto, in Lav. Giur., p. 820.

LEONE, Le collaborazioni (coordinate e continuative) a progetto, cit., 101

Comunque non necessario perché la forma è ad probationem.

LUNARDON, Art. 61-69. Tipologie contrattuali a progetto e occasionale. Certificazione dei rapporti di lavoro, cit., 34.

DE LUCA TAMAJO, Dal lavoro subordinato al lavoro “a progetto”, cit.. Conclude per la natura di contratto di durata PROIA, Lavoro a progetto e modelli contrattuali di lavoro, cit., il quale argomenta dal fatto che l’obbligazione assunta dal collaboratore nel nuovo modello contrattuale non si è esaurisce con l’esecuzione dell’opus o del servizio ma consta di tutta una serie di attività ed adempimenti che integrano la collaborazione coordinata, con la conseguenza che si tratterebbe sempre e comunque di contratto di durata.

PEDRAZZOLI, Commentario, cit.. Contra SANTORO PASSARELLI G., Prime chiose alla disciplina del lavoro a progetto, cit., che ritiene la categoria dei contratti ad esecuzione prolungata non come una categoria autonoma idonea a superare il dualismo tra contratti ad esecuzione istantanea e contratti ad esecuzione continuata, ma come una particolare forma di contratti ad esecuzione istantanea dei quali pertanto mantiene tutte le caratteristiche e gli effetti giuridici. L’Autore propone una analogia tra il contratto di lavoro a progetto ed il contratto di appalto.

MISCIONE, Il collaboratore a progetto, cit., 818, riferisce il progetto solo ad alte professionalità; contra LUNARDON, Art. 61-69. Tipologie contrattuali a progetto e occasionale. Certificazione dei rapporti di lavoro, cit., 24, argomentando dal fatto che, se così interpretato, non avrebbe senso l’esclusione degli iscritti ad ordini, trattandosi di categorie di soggetti caratterizzati appunto da un alto grado di professionalità. Propende invece per un contenuto del progetto relativo anche ad “una esigenza normale e ricorrente dell’azienda del committente”.

SANTORO PASSARELLI G., Prime chiose alla disciplina del lavoro a progetto, cit., par. 4.

PROIA, Lavoro a progetto e modelli contrattuali di lavoro, cit.

Cfr. DE LUCA TAMAJO, Dal lavoro parasubordinato al lavoro “a progetto”, cit.

DE FUSCO, CACCIAPAGLIA e PIZZUTI, Le collaborazioni dopo la riforma del mercato del lavoro, XXI.

GAROFALO D., Statuto protettivo del lavoro parasubordinato e tutela della concorrenza, in Mercato del lavoro. Riforma e vincoli di sistema, cit., 17

Per la tesi per cui la durata sarebbe deducibile dal progetto e quindi inscindibilmente legata ad esso v. TOSI, Appalto, distacco, lavoro a progetto nel recente decreto di riforma: appunti da una conferenza, cit.

Cfr. PINTO, Le collaborazioni coordinate e continuative e il lavoro a progetto, cit., 334

LUNARDON, Art. 61-69. Tipologie contrattuali a progetto e occasionale. Certificazione dei rapporti di lavoro, cit., 52.

GUIDOTTI, La retribuzione nel rapporto di lavoro, Milano 1956 p. 61. Già sulla nozione di retribuzione si era soffermato, CASSI, la retribuzione nel contratto di lavoro, Milano 1956, p 10 ss. Va pure segnalata l’opera di MORTILLARO La retribuzione, 1, Roma 1979, anch’essa dedicata ai principi generali , soprattutto in relazione all’analisi storica e all’imposizione sistematica. Ancor più recentemente il tema è stato trattato da CINELLI in Retribuzione, nel novissimo Digesto, Torino , 1985, da DELL’OLIO , La retribuzione, in Trattato di diritto privato, diretto da PIETRO RESCIGNO, vol 15, Impresa e lavoro, Torino , 1986, p 461 ss. e da ROCCELLA, I salari Bologna 1986. Inoltre vanno richiamati gli studi di PERSIANI, I nuovi problemi della retribuzione, Padova , 1982, di TREU, Problemi giuridici della retribuzione, in Gior. di. Dir. Lav., 1980, 1 ss; il Volume Problemi Giuridici della retribuzione, contenenti gli atti delle giornate di studio 19- 20 Aprile 1980 promosse dall’ Aidlass Milano 1981.

MORTILLARO, La retribuzione, op. cit. p 86,87 Roma 1979.

TREU, Onerosità e corrispettività nel rapporto di lavoro, Milano 1968, p 64 ss., con riferimento alle ipotesi di lavoro prestato contro promessa di istituzione di erede, di legato, di matrimonio nonché ai casi di volontariato e di praticantato.

Vedi la raccolta di giurisprudenza di BONARETTI, Il lavoro a titolo gratuito, Milano 1969, e in giurisprudenza vedi sentenza Cass. 13 giugno 1987, n 5221, in Mass. Giuris. It. 1987, 841 sulla presunzione di gratuità del lavoro familiare.

Vedi art 2094 c.c. sul quale fa riferimenti RIVA SANSEVERINO in Commentario del codice civile a cura ci Scialoja Branca – Disciplina delle attività professionali, Impresa in generale , sub art. 2094, Bologna-Roma 1986 p 246ss.

ROCCELLA in salari op. cit, pone l’accento sull’impossibilità d’identificazione tra sostanza economica e concetto giuridico del salario, p 110.

Vedi in GHEZZI-ROMAGNOLI, Il rapporto di lavoro, II ed. , Bologna , 1987 p 205, e in SANTONI, La posizione soggettiva del lavoratore dipendente, Napoli 1979 p 227 ss. Su posizione differente PERA in Diritto del lavoro, III ed. Padova 1988, p 468, il quale reputa valida la concezione della retribuzione come “ prezzo del lavoro” prospettando in termini positivi una soluzione del problema attraverso l’imposizione di minimi legali di retribuzione.

La rimozione della disparità di trattamento retributivo,per quanto concerne le donne e i minori, è costituzionalmente assicurata dall’art 37 Cost. Sul piano normativo, nonostante la precettività di detta norma, per quanto riguarda le donne si è avuto una normativa rafforzata con la l. del 1977/903. Sul tema della parità tra uomo e donna la letteratura è vastissima, vedi in particolare, BALLESTRERO, Dalla tutela alla parità, la Legislazione italiana sul lavoro della donna, Bologna 1979 Ead. I giudici e la parità: osservazioni sull’applicazione giudiziaria della l. 903/1977, in Pol. Dir.1982 p 466. Poi ISEMBURG, Divieti di discriminazione nel rapporto di lavoro, Milano 1984.

Contro il parere precettivo dell’art. 36 Cost, vedi SCORZA, Il diritto al salario minimo e l’art 36 Cost., in Dir. Lav., II p 450 ss.; ARDAU, La costituzione della repubblica e la determinazione della retribuzione, in jus, 1952, p 550; PERA, la giusta retribuzione dell’art36 Cost, in Dir. Lav.1953,I p 99, ss; NICOLÒ, L’art 36 e i contratti individuali di lavoro 1951 p 5 ss.

Vedi RANIERI, La Retribuzione sufficiente, nel II vol. de “La revisione della normativa sul rapporto di lavoro, a cura di LISO e RUSCIANO, Napoli 1987, p 249, dove son richiamate le prime sentenze di merito e di legittimità che affermano la natura precettiva dell’art. 36 Cost.

Più recentemente la disputa dottrinaria, intorno alla programmaticità della norma in questione è stata definita una falsa contrapposizione, vedi TREU, Commento all’art. 36 Cost., in Commentario della Costituzione, a cura G. BRANCA, p. 77, secondo il quale il vero problema consisterebbe nell’individuazione delle modalità e degli strumenti della sua attuazione.

Sui detti requisiti vedi, DE CRISTOFARO M. L., La giusta retribuzione, Bologna, 1971, p. 71 ss.; SCOGNAMIGLIO, Il lavoro nella costituzione italiana, in Lavoro nella giurisprudenza Costituzionale, a cura del medesimo, Milano 1978, inoltre la sentenza Corte Cost. n 30/1960, in Mass. Giurisp. Lavoro, 1960, p. 306.

Per una retribuzione “scambista” vedi GUIDOTTI in ult. op. cit., mentre nel verso contrario vedi GHEZZI-ROMAGNOLI, in Rapporto di Lavoro, cit. p. 205; GALANTINO, Lezioni di diritto del lavoro, p. 209 ss.

Su part-time e art36 Cost, v. COMITO, Applicabilità dell’art 36 ai rapporti di breve durata giornaliera, in Riv, Giur. Lav., 1965 I, p 544.; FILADORO , Il Part-Time, Milano, 1984, p 67 nel quale ci sono ampi richiami giurisprudenziali.

In tal senso soprattutto GALATINO, Formazione Giurisprudenziale, cit. op. 234 ss. pur nel contesto della costante giurisprudenza della Suprema Corte che nega possa trarsi dall’art. 36 Cost. il principio di parità di trattamento retributivo.

DE CRISTOFARO, La giusta retribuzione cit, p 40; BALZARINI, Retribuzione sufficiente, retribuzione giusta e salario minimo legale., in Riv. Dir., Int. Com., Lav., 1974, p. 231.

Su tale meccanismo v. PANUCCIO, L’Art 36 Cost e il contratto di lavoro, in Riv. Giur. Lav, 1953 II, p 20; SIMI,, Il contratto collettivo di lavoro, Padova , 1980 p 136.

Per un esame della giurisprudenza di merito v. DE CRISTOFARO M.L. op ult. cit. p 91ss. e anche TREU, in Commentario alla Costituzione cit.

In tal senso, Cass. 15 gennaio 1963, n 35 in Giust. Civ. Mass, 1963, p 16

In proposito v. Cass. 12 giugno 1964, n 1473, in Giust. Civ. Mass. P 668, Cass. 26 maggio 1966, n 1400 in Riv. Dir. Lav., 1967, II, p. 443.

La giurisprudenza è costante su questo punto, da ultimo v. Cass. 20 marzo 1987, n. 2791, in Mass. Giur. It., 1987, p 439.

La Cassazione con sentenza del 7 aprile 1987 n 3400 (solo massima) in Dir. Prat. Lav., 1987, p. 2506, si è così pronunciata: “Il 1° comma dell’art 36 Cost riguarda esclusivamente il lavoro subordinato e non può essere invocato in tema di compenso per le altre prestazioni lavorative, quali quelle del lavoro autonomo, mentre l’estensione normativa di talune regole proprie del lavoro subordinato a categorie di lavoratori autonomi e l’applicabilità del rito del lavoro ai rapporti cd parasubordinati costituiscono mere eccezioni alla regola generale dell’inapplicabilità al lavoro autonomo di principi e regole tipici del lavoro subordinato”. V anche Cass., 13 dicembre 1986 in Dir. Prat. Lav. 1987 p 1495.- Cass. 21 gennaio 1998, n 531 in Mass. Giur. Lav., e Cass. 11 maggio 1991 n 52911, DPL, 1991 , p 1887; Cass 26 luglio 1990 n 7543, DPL, 1991 p 62.

Soprattutto SANTORO PASSARELLI in Il lavoro parasubordinato, Milano, 1979, p. 48 ss; GRIECO Lavoro parasubordinato e diritto del lavoro, Napoli, 1983, p. 48 ss, e p. 76.

Le sentenze citate alla nota 79, sono contro l’applicazione dell’art 36 Cost., mentre a favore dell’applicabilità vedi Trib. Pesaro 26 gennaio 1970, in Giur. It., I, 2, p. 310.

Vedi in proposito sent. Cass. 27 ottobre 1975, n 3575, in Mass. Giur. it, 1975 c 1018.

Non è altrettanto chiara, invece, la giurisprudenza anche più recente.

Su questo punto, una decisa presa di posizione si ha da parte di tutti gli autori che si sono occupati del tema, almeno negli ultimi quaranta anni, per cui le citazioni sembrano superflue; si vedano, comunque; CESSARI, Fedeltà, lavoro,impresa p 129 ss; MANCINI, La responsabilità contrattuale, p. 120ss. Com’è noto, invece, l’idea estrema che il rapporto di lavoro richieda un fervore spirituale di tutti, è espressa nella dottrina italiana da L. BARASSI, in Il diritto del lavoro, vol. II, Milano, 1949.

Nel senso che il contratto è l’unica fonte del rapporto ossia degli obblighi delle parti.

Si tratta della teoria di CESSARI, espressa in op. cit. e ribadita già nella relazione al congresso AIDLASS del 1969.

CESSARI, op. cit., p 93., sulla rilevanza di un interesse oggettivo dell’impresa, intesa come corpo sociale unitario centro d’imputazione d’interessi collettivi di tutti i partecipanti, già SUPPIEJ,in La struttura del rapporto di lavoro, II, Cedam, Padova 1963 p 116 ss.

CESSARI ult .op. cit, p 125 ss.

CESSARI op. cit., p 130 ss.

CESSARI op. cit., fine p 130

CESSARi op. cit., p 136.

La ratio del divieto assoluto di una situazione concorrenziale, non si spiega altrimenti che nell’ambito di una relazione personale implicante un’integrazione di attività in funzione di un interesse partecipato, anche se esso è semplicemente strumentale rispetto al perseguimento di interessi finali divergenti. Così s’intende, la ragione per cui la legge qualifica come infedele l’atto di concorrenza commesso dal collaboratore dell’impresa, allo stesso modo in cui è certamente infedele l’atto commesso dal socio di società personale (art. 2301 cod. civ.) o dall’amministratore di società (art. 2390 cod. civ.). In ciascuna delle tre ipotesi è decisivo il carattere personale del vincolo interno, che impedisce al soggetto di porsi unilateralmente in situazione di concorso esterno. Nel primo caso viene in luce l’integrazione strumentale delle attività lavorative inerenti alla medesima organizzazione di lavoro. Nel secondo caso è decisiva l’identità dell’interesse sociale partecipato dai soci di società personale. Nell’ultimo caso viene in rilievo il vincolo che impegna l’amministratore ad indirizzare l’attività personale verso il perseguimento dell’interesse sociale, art. 2392 cod. civ. così CESSARI, op. cit., p 140 ss.

V. TRIONI G., L’obbligo di fedeltà nel rapporto di lavoro, p. 229, Milano, 1982.

TRIONI G. ,L’obbligo di fedeltà nel rapporto di lavoro, op. cit., p. 103. Nello stesso senso RIVA SANSEVERINO, Disciplina delle attività professionali. Impresa in generale , in Commentario al codice civile a cura di Scialoja Branca, Libro V del lavoro. Art. 2060-2134 cod. civ., Zanichelli.

Anche se l’autore nega (ovviamente) all’obbligo in questione , un contenuto così ampio da comportare la doverosità di tutti i comportamenti giovevoli agli interessi di un determinato soggetto o anche soltanto l’illiceità di tutti i comportamenti che possono cagionare ad esso un danno, Trioni G. op. cit., p 131 ss.

Infatti l’ autore nega che ricadano sotto la previsione dell’art 2105 cod. civ. , pur costituendo giusta causa di recesso, gli atti preparatori della concorrenza. TRIONI, op. cit , p136 ss.

Questa conseguenza assolutamente necessaria date le premesse, è espressa con molta chiarezza dal TRIONI G. in Tutela contro i licenziamenti: fine di un epoca?, in Dir. Rel. Ind., 1997, p. 138.

È la posizione espressa dl Persiani, in Il contratto di lavoro e organizzazione, Padova 1966 p 248.

PERSIANI in Contratto di lavoro, op. cit p 248.

Il contratto così esaminato dal Persiani, appare non come un obbligo di fedeltà, ma come un dovere di diligenza non diversa da quella diligenza qualificata di cui all’art. 2094 cod. civ.. SMURAGLIA in, La persona del prestatore di lavoro, p. 298, 1997.

Si possono ricordare, in questo senso, l’art 2390 cod. civ. sul divieto di concorrenza degli amministratori di società, e soprattutto l’art. 1743 cod. civ. relativo all’obbligo dell’agente di non trattare affari per più imprese in concorrenza fra loro.

Basti il rinvio a SANTORO PASSARELLI in op. più volte cit. 1979, p 95 ss., e più recentemente le citazioni di CAGNESCO, Opera (contratto di) in Digesto delle discipline Privatistiche sez. Comm., Torino, 1994, p. 329

La giurisprudenza maggioritaria ritiene che sia applicabile al co.co.co la sola norma esplicitamente richiamata dal legislatore ossia l’art 2113 cod. civ. relativa al processo del lavoro. In questo senso la Cort. Cost 24 luglio 1995 n 365 in Mass. Giust. Lav p 529 che ha affermato che l’art. 35 Cost non esclude forme diverse di tutela secondo la diversa natura dei rapporti in cui l’attività di lavoro è dedotta, nello stesso senso, da ultimo la Cass 18 febbraio 1997, n 1459, in Mass. Giur. Lav, 1997 p 309. Non vi è alcuna decisione che estenda esplicitamente ai lavori parasubordinati gli obblighi previsti dall’art. 2105 cod. civ. Si veda peraltro Cass. 23 agosto 1990n 8584 in Riv Dir ind. 1991 p 23 la quale ritiene che l’obbligo di fedeltà , intesi come obbligo di concorrenza vincoli anche i lavoratori parasubordinati. Sembra che la Corte invochi un’applicazione analogica sia della norma che prevede l’obbligo di non concorrenza a carico del lavoratore subordinato, sia di quella che lo prevede a carico dell’agente. Si trattava di un caso particolare di regolamento di competenza del giudice, nel quale la Cassazione ha affermato la competenza del giudice del lavoro sulla domanda proposta da una società commerciale nei confronti di un soggetto legato da un rapporto collaborazione continuativa e volta ad ottenere il risarcimento dei danni subiti per atti di concorrenza sleale da questo commesso nel corso di tale rapporto. La Corte ha ritenuto che si trattasse di violazione di un obbligo di fedeltà contrattualmente assunto, e che la competenza spettasse appunto al pretore in funzione del giudice del lavoro.

Il contratto collettivo di tale settore comprende diverse tipologie di lavoratori, tra cui sindaci , amministratori in genere, procacciatori d’affari, collaboratori informatici etc…

Tanto da riferirsi ora all’uno ora all’altro dei due articoli si veda Cass. 14 giugno 1985 n 3587, in Not. Giur. Lav, 1986, 184 secondo cui il comportamento del lavoratore, che dopo aver comunicato al datore il proprio stato d’infermità, come da certificato medico, si sottrae al controllo previsto dal 5°, 2 comma della l. 300/70, risolvendosi in una violazione dei doveri di correttezza e diligenza previsti dagli artt. 1176-76 cod. civ., può essere fonte di sanzione disciplinare ex art.2106 cod. civ.

Rispettivamente, pretore di Lecce, 10 dicembre 1993, in Not. Giur. Lav., 1994, 335: Cass. 17 giugno 1991 n 6814 in Giust. Civ. Mass.,1991 fasc. 6.

Si veda Cass. 12 aprile 1979 n 2179, in Mass. Giur. Lav, 1980, 185.

Salvo poi verificare se sia possibile distinguere il datore di lavoro, che può essere considerato debitore comune da quello che invece deve essere ritenuto professionale. In Viscomi Diligenza e prestazione di lavoro, Torino 1997 p 28..

Cass. 17 novembre 1993 n 11358 in Riv Giur. Lav., 1994 II p 1025. siffatta correlazione è addirittura esaltata dalle decisioni che giustificano, in forza di un generale obbligo adempimento delle obbligazioni secondo buona fede e con la diligenza inerente alla prestazione dovuta, l’osservanza delle prescrizioni e delle cautele necessarie per la più sollecita delle reintegrazioni delle energie lavorative.

Nella specie, relativa ad un incidente occorso a un minore inabile, la Corte di cassazione ha escluso che la terapista fosse tenuta a vigilare il paziente anche al termine del trattamento quando invece il paziente stesso sarebbe dovuto essere preso in consegna dal portantino: Cass. 28 marzo 1992 n 3845, in Not. Giur. Lav., 1992 p 496; Cass. 10 giugno 1993 n 6464 in Giust Civ., 1993 I, p 2333.

Rispettivamente: Pret. Roma 3 maggio 1991 in Not. Giur. Lav., 1993 p 72; Cass. 11 maggio 1985 n 2951 in Giust. Civ, 1986 p 1274. Pret. Trieste 18 maggio 1989, Not. Giur lav, 1990, p 49.

Cass. 14 luglio 1994 n 6597, in Not. Giur. Lav, 1994 p 624

Nel secondo senso: Cass. 4 dicembre 1990 11652, in Giust. Civ. Mass., 1990 fasc. 12; Cass 29 gennaio 1990 n 572, in Inf. Prev., 1990, p. 1274. Cass. 20 agosto 1991, n. 8973, in foro it. Rep, 1991, voce Lavoro, n. 1511. Nel primo senso Cass. 17 novembre 1993 n 11358, in Riv. Giur. Lav, 1994 II, 1025.

Cass. 3 febbraio 1993 n 1341, in Riv. Giur. Lav, 1994 II, 253, Cass. 20 settembre 1991 n 9803, in Riv. It. Dir. Lav., 1992 II 682

Cass. 7 gennaio 1995 n 208., in Mass. Giur. Lav., 1995 p 346; almeno dalla sentenza della Corte Cost 204/1982, è affermazione costantemente ribadita che disciplinare è il licenziamento in relazione al quale al giusta causa o il giustificato motivo soggettivo sono integrati dalla colpevole violazione, da parte del lavoratore, degli obblighi di diligenza e di obbedienza. Appunto per tale motivo, si è detto che il licenziamento disciplinare coincide con il licenziamento per giustificato motivo soggettivo.

Cass 20 agosto 1991 n 8973, in Riv. Giur. Lav., 1992 II p 185, Cass. 8 luglio 1994 n 6347 in Mass. Giur. lav. 1994 p 525. Generalmente si ritiene del tutto legittima l’individuazione di parametri utili al fine di accertare se la prestazione sia eseguita con quella diligenza e quella professionalità che possono considerarsi mediamente proprie delle mansioni svolte. Contra, alcuni giudici escludono che possa riconoscersi a una determinazione unilaterale del datore la funzione di parametro obbligatorio del rendimento minimo dovuto, ed altri riconducono lo scarso rendimento da imperizia nel rischio d’impresa. Pret. Milano 2 ottobre 1993, in Riv. It. Dir lav, 1994 p 403.

Cass, 25 novembre 1982 n 6405, in Giust. Civ., 1983 I p 1563; Cass. 23 aprile 1982 n 2797, in Riv it dir lav., 1983 II p 647.

Così DI MAJO, Delle obbligazioni in generale, in Commentario al cod. civ, Roma, 1988.

MENGONI, Obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi in Riv dir civ, 1954, p. 185, 280, 366.

RIVA SANSEVERINO, Dell’impresa, op. cit, p 325, ritiene che il richiamo alla diligenza vale a designare il tipo medio d’applicazione e di perizia tecnica normalmente esigibile.

La citazione è tratta da Pret. Milano, 27 maggio 1978, in Dir. Lav. 1978 II p 103

Ciò è quanto esprime SCOGNAMIGLIO, Responsabilità contrattuale cit p 641, quando afferma, ma in relazione alla responsabilità civile, che sulla base dell’art. 1176 cod. civ. il modello è dato dal modo in cui si comporta il cittadino di media diligenza e prudenza nell’ambiente che si considera.

c.d. periodo di comporto, MAGNANI – SPATARO, 2003.

VALLEBONA, La riforma dei lavori, cit., 22. Per il divieto del legislatore di escludere le tutele fondamentali del lavoro subordinato, per un rapporto effettivamente tale, qualificandolo impropriamente come autonomo, v. Corte Cost., n. 115 del 31/03/1994, in Foro it., 1994, I, 2656, n. 121 del 29/03/1993, in Foro it., 1993, I, 2432. Sul correlativo divieto per le parti contrattuali v., Cass., n. 5520 del 20/05/1997 in Foro it. Rep., 1997, voce Lavoro (rapporto di), 564. Sul divieto per la contrattazione collettiva, v. Cass., n. 4509 del 05/05/1999, in Guida al lav., 1999, n. 26, 23. Sull’impossibilità per il giudice di applicare gli schemi legali di determinati lavori autonomi qualora in concreto sia stato attuato un rapporto di lavoro subordinato v., Cass., n. 11756 del 20/11/1998 in Riv. It. Dir. Lav., 1999, II, 488; Cass., n. 9722 del 07/10/1997 in Riv. It. Dir. Lav., 1998, II, 659; Cass., n. 1350 del 06/02/1995, in Riv. It. Dir. Lav., 1995, II, 817.

Così SANTORO PASSARELLI G., Prime chiose alla disciplina del lavoro a progetto, cit., par. 9

Circ. n. 1/2004. Nello stesso senso TIRABOSCHI, Il Lavoro a progetto e le collaborazioni occasionali, cit.

SANTORO PASSARELLI G., op. loc. cit..

LUNARDON, Art. 61-69. Tipologie contrattuali a progetto e occasionale. Certificazione dei rapporti di lavoro, cit

SANDULLI, La riforma delle collaborazioni continuative e coordinate: il nuovo “lavoro a progetto”, cit.

LUNARDON, Art. 61-69. Tipologie contrattuali a progetto e occasionale. Certificazione dei rapporti di lavoro, cit., 68; Contra DE LUCA TAMAJO, Dal lavoro parasubordinato al lavoro “a progetto”, cit.

MISCIONE, Il collaboratore a progetto, cit.; NOGLER, La certificazione dei contratti di lavoro, in W.P. C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”, n. 23, 2003, 53

LUNARDON, Art. 61-69. Tipologie contrattuali a progetto e occasionale. Certificazione dei rapporti di lavoro, cit., 69, afferma che solo l’art. 69 D.Lgs. 276/2003 è inderogabile, avendo ad oggetto una conseguenza sanzionatoria per legge.

Coerentemente NOGLER, La certificazione dei contratti di lavoro, cit.

TOSI, Appalto, distacco, lavoro a progetto nel recente decreto di riforma: appunti da una conferenza, cit

La soluzione accolta nel testo pare confermata dallo schema di decreto correttivo del D.Lgs. 276/2003, il quale all’art. 11 statuisce che “L articolo 68 del decreto legislativo, è sostituito da seguente: «Nella riconduzione a un progetto, programma di lavoro o fase di esso dei contratti di cui all articolo 61, comma 1, i diritti derivanti da un rapporto di lavoro già in essere possono essere oggetto di rinunzie o transazioni tra le parti in sede di certificazione del rapporto di lavoro di cui al Titolo VII del presente decreto legislativo»”.

Nello stesso senso SPEZIALE, “Certificazione dei rapporti di lavoro”, in Commentario a cura di CARINCI, IV, 231.

SANTORO PASSARELLI G., Prime chiose alla disciplina del lavoro a progetto, cit., par. 13

In questo senso SANTORO PASSARELLI G., op. loc. ult. cit..


 
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