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   sabato 24 settembre 2005

L’IRRILEVANZA DEL CONSENSO DEL LAVORATORE NEL CASO DI TRASFERIMENTO DI RAMO D’AZIENDA.

del Dr. Enrico Raimondi



L’IRRILEVANZA DEL CONSENSO DEL LAVORATORE NEL CASO DI TRASFERIMENTO DI RAMO D’AZIENDA.


Premessa.


La recente riforma del nostro diritto del lavoro, coerentemente ad una scelta di politica del diritto tesa a favorire i processi di esternalizzazione che caratterizzano l’attuale fase di riorganizzazione del sistema produttivo, ha nuovamente modificato[1] anche la disciplina relativa al trasferimento d’azienda.


Con l’espressione “esternalizzazione”, su cui si è confrontata larga parte della dottrina[2], si fa riferimento a quella “tendenza alla specializzazione, al concentrarsi dell’impresa sul suo core business, facendo fare ad altri ciò che gli altri sanno fare in modo più efficiente”[3].


Di fronte a questa tendenza che caratterizza le recenti scelte delle imprese, collocate oggi all’interno di un mercato globale che le obbliga a rispondere ad una domanda di beni e servizi sempre meno prevedibile, sorge, tuttavia, il dubbio che le scelte compiute dal legislatore del 2003 non rispondano, tuttavia, alla necessità di contemperare i descritti interessi imprenditoriali con la tutela dell’occupazione e dei diritti dei lavoratori, ma di assecondare le scelte datoriali fino al limite di “favorire vere e proprie destrutturazioni dell’impresa”[4] nella logica di “favorire una flessibilità senza diritti”[5].


L’impressione, infatti, è che la riforma dell’art. 2112 cod.civ., se considerata nel complesso del d.lgs. n. 276/03, che ha aumentato le ipotesi di interposizione della manodopera e le tipologie contrattuali, abbia puntato a garantire all’imprenditore la massima flessibilità organizzativa che, tuttavia, non soltanto non sarà ragionevolmente in grado di garantire l’obiettivo, contenuto nella legge delega, di aumentare l’occupazione, ma, soprattutto, aumenterà il grado di insicurezza dei lavoratori[6].


La ratio dell’art. 2112.


Secondo un consolidato orientamento della dottrina, la disciplina del trasferimento di azienda “è espressione del principio dell’inerenza del rapporto di lavoro al complesso aziendale, al quale resta legato in tutti i casi in cui questo, pur cambiando la titolarità, resti immutato nella sua struttura organizzativa e nell’attitudine all’esercizio dell’impresa”[7].


Questo orientamento, tuttavia, non tiene conto che tale disciplina non è stata ispirata da una ratio esclusiva, ma da un insieme di rationes, come ha compreso la giurisprudenza quando afferma che l’art. 2112 cod. civ. “da un lato tutela il diritto del lavoratore all’esercizio della propria professionalità, nonostante le vicende traslative che possano involgere beni in cui la stessa è connessa, e dall’altro è coerente con le esigenze di ristrutturazione aziendale, … di riconversione industriale e di delocalizzazione delle imprese, ai quali è finalizzata la normativa contenuta nell’art. 2112 c.c.” (Cass., sez. lav., 30 luglio 2004, n. 14670).


Non si può dunque non convenire con quella dottrina[8] più attenta che ha messo in rilievo come l’art. 2112 cod. civ. contenga da sempre in sé almeno due finalità: l’una, di tutela sociale, l’altra, di garantire all’imprenditore la realizzazione dell’interesse alla circolazione dell’azienda.


La scelta compiuta dall’art. 2112 cod. civ., quella cioè di rendere insensibile il lavoratore alle vicende soggettive dell’impresa[9] e quindi di escludere la necessità del consenso del contraente ceduto, si fondava, infatti, su un modello di impresa, “la quale circolava come tale o al più per pezzi rappresentanti un segmento compiuto e relativamente autosufficiente del ciclo produttivo la cui caratterizzazione in termini di know-how risiedeva solo in minima parte nella manodopera, per lo più sostituibile in modo relativamente agevole. A quel modello sociale era dunque coerente la valorizzazione del legame contrattuale tra lavoratore e persona del datore di lavoro”[10].


In questo contesto, il bilanciamento degli interessi in campo si è realizzato sacrificando il consenso del lavoratore al trasferimento, e cioè l’interesse del lavoratore a influire sulle scelte relative alla cessione del ramo produttivo ove egli svolge la propria prestazione, realizzando, tecnicamente, “una successione ex lege a titolo particolare nel rapporto contrattuale”[11], che rende pertanto inoperativa la previsione di cui all’art. 1406 cod. civ., come ha ricordato più volte la giurisprudenza. (Cass., sez. lav., 23 luglio 2002, n. 10761; conf.: Cass., sez. lav., 22 luglio 2002, n. 10701; Cass., sez. lav., 30 luglio 2004, n. 14670).


A tale tecnica, inoltre, si è fatto ricorso anche nel caso del trasferimento di un singolo ramo di azienda, “da intendere come un complesso di beni che oggettivamente si presenti quale entità dotata di una propria autonomia organizzativa ed economica funzionalizzata allo svolgimento di un’attività volta alla produzione di beni o servizi”[12], benché, come è stato di recente sottolineato, al trasferimento di azienda e a quello di un suo ramo “sottendono assetti di interessi diversi non soltanto sul piano quantitativo, ma anche su quello quantitativo”[13], che avrebbero, pertanto, avuto bisogno di una differenziazione di disciplina.


E’ questa la ragione per cui in modo condivisibile si è arrivati a sostenere che la norma in esame sebbene fosse nata per consentire all’imprenditore di esternalizzare alcuni settori della sua attività economica, ha finito per essere invocata quale norma posta a presidio dei diritti dei lavoratori[14].


La nuova concezione del trasferimento di ramo di azienda.


La nuova normativa, in effetti, introduce una differenziazione di disciplina, ma induce a porsi l’interrogativo se essa sia idonea a realizzare il bilanciamento di interessi prima descritto, soprattutto a seguito di un ripensamento della stessa nozione di azienda sulla quale si era costruita la disciplina e la giurisprudenza in materia. Se, infatti, si è ritenuto che il ramo di azienda dovesse consistere in una “piccola azienda”, che giustificava una disciplina omogenea del trasferimento dell’azienda nel suo complesso e di quello di un suo ramo, oggi ci troviamo di fronte ad un mutamento[15] dell’oggetto dell’entità trasferibile, dal momento che “sempre più spesso il valore dell’azienda non è costituito dai beni che la compongono, ma dal bagaglio di conoscenze dei dipendenti”[16]. Emerge, cioè, all’interno dei processi produttivi una nuova concezione dell’impresa che ha condotto prima la giurisprudenza comunitaria e poi quella nazionale a “sganciare la nozione di azienda trasferita dalla zavorra della materialità dei beni prendendo atto del fatto che la fenomenologia dei processi organizzativi della produzione economica oggi può essere frequentemente costituita da soggetti (rectius <entità>) non supportate da alcuna materialità ma organizzate attorno ad una attività economica fortemente immateriale[17]”.


Come è noto la direttiva comunitaria in materia non definiva originariamente la nozione di ramo di azienda. E’ stata la giurisprudenza della Corte di Giustizia che ha introdotto, per la prima volta, una nozione di ramo d’azienda, intesa quale “entità economica che conserva la propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria”. Non potendo analizzare in questa sede quali siano gli obiettivi che si propone la comunità europea[18], è utile rilevare come la Corte di Giustizia, già dal caso Spijkers, ha elaborato in materia un criterio interpretativo di fondo che ritiene che si ha trasferimento di azienda tutte le volte in cui la vicenda circolatoria riguardi un’entità economica ancora esistente, la quale dopo il trasferimento conservi la propria identità; con tale decisione, inoltre, la Corte ha chiarito che tra i fattori utilizzabili per verificare la sussistenza di tale requisito “il trasferimento di elementi patrimoniali non è determinante affinché l’entità di cui trattasi conservi la sua identità”[19].


Si parla, cioè, di “azienda dematerializzata”[20], che rende possibile ipotizzare, ad esempio che possa “configurarsi un trasferimento aziendale che abbia ad oggetto anche un solo gruppo di dipendenti stabilmente coordinati ed organizzati tra loro, la cui capacità operativa sia assicurata dal fatto di essere dotati di un particolare know how” (Cass., sez. lav., 10 gennaio 2004, n. 206). Come è stato ricordato, infatti, “la giurisprudenza, nazionale e comunitaria, da tempo aveva consentito i trasferimenti di imprese <leggere> e gli appalti interni di servizi con solo apporto di personale: in entrambi i casi ammettendo una nozione dematerializzata di azienda … per allargare il confine del trasferimento di impresa e altresì quello di ramo di azienda, ai sensi dell’art. 2112 cod. civ.”[21].


In effetti, a partire dal d.lgs. n. 18/01 si passa da una nozione commercialistica di azienda, come definita dall’art. 2555 cod. civ., ad una nozione immateriale quale quella di “attività economica organizzata” elaborata dalla giurisprudenza comunitaria”[22]. In sostanza, come ha ritenuto la giurisprudenza richiamata “requisito indefettibile della fattispecie legale tipica delinata dal diritto comunitario e dall’art. 2112 cod. civ. resta … l’elemento dell’organizzazione, intesa come legame funzionale che rende le attività dei dipendenti appartenenti al gruppo interagenti tra di esse e capaci di tradursi in beni o servizi ben individuabili, configurandosi altrimenti la vicenda traslativa come cessione del contratto di lavoro, richiedente per il suo perfezionamento il consenso del contraente ceduto” (Cass., sez. lav., 10 gennaio 2004, n. 206). Da ciò si desume che mentre in passato l’oggetto del trasferimento poteva consistere, a determinate condizioni, in una parte di quel “complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa” (art. 2055 cod. civ.), oggi il bene economico oggetto del trasferimento può essere l’attività stessa di lavoro che, in quanto organizzata, è per ciò stessa un bene suscettibile di circolazione giuridica.


Preso atto che “smaterializzazione e esternalizzazione … mettono in crisi, fino a renderle obsolete, alcune categorie concettuali e normative, costruite sul bel diverso paradigma dell’impresa fordista”[23] il problema, tuttavia, è quello di capire se a fronte di tale dilatazione della nozione di trasferimento di ramo di azienda, operata per allargare l’ambito di applicazione dell’art. 2112 cod. civ., sia corrisposta un’estensione delle tutele dei lavoratori coinvolti in tali processi; questo interrogativo sorge se si pensa che, contrariamente a quanto finora accaduto, negli ultimi tempi “i lavoratori chiedono, per tutelare più efficacemente i propri interessi, l’applicazione dell’art. 1406 cod. civ. … mentre i datori di lavoro invocano l’applicazione dell’art. 2112 cod. civ.”[24], rendendo così fondata la tesi della eterogenesi dei fini dell’art. 2112 cod.civ.[25].


Il problema del consenso del lavoratore.


Non è un caso, quindi, che soprattutto oggi riemerga il problema della necessità del consenso del lavoratore.


Una parte della dottrina[26], sulla base di una lettura dei principi comunitari in materia, sostiene la necessità del consenso del lavoratore al trasferimento ovvero intravede un diritto di opposizione in capo al prestatore di lavoratore. Il diritto comunitario, inoltre, avrebbe orientato anche una parte della giurisprudenza di merito, che ha sostenuto la necessità del consenso del lavoratore interessato al trasferimento. In una sentenza del 1999 il Pretore di Milano[27] ha, infatti, sostenuto che “nel caso di trasferimento di ramo di azienda ex art. 2112 c.c., interpretato alla luce della direttiva Ce 14 febbraio 1977, n. 77/187, la cessione del rapporto di lavoro è automatica solo nei confronti del cedente e del cessionario , ma resta subordinata al consenso del lavoratore ceduto, che a tale cessione potrebbe efficacemente opporsi”. I sostenitori della necessità del consenso del lavoratore, inoltre, si fondano su una interpretazione che della normativa comunitaria in materia di trasferimento d’azienda ha offerto, in una occasione, la Corte di Giustizia CE. Questa sentenza, nell’affermare che il lavoratore ha diritto di scegliere il proprio datore di lavoro, avrebbe così introdotto un diritto di opposizione del lavoratore stesso al suo trasferimento.


A ben vedere, però, la sentenza ricordata non impone il consenso del lavoratore al suo trasferimento, ma sostiene che siano gli Stati membri a decidere quali effetti un’eventuale opposizione del lavoratore avrebbe sul rapporto di lavoro con il cessionario.


Questo orientamento, del resto, è sostenuto dalla gran parte della dottrina [28], che ritiene che la necessità del consenso dovrebbe essere oggetto di una specifica ed esplicita indicazione normativa, risultando comunque sufficiente, per tutelare le ragioni del lavoratore che non voglia passare all’acquirente dell’azienda, il ricorso all’istituto del recesso. Proprio tale scelta è quella che ha compiuto il nostro legislatore nazionale al quarto comma dell’art. 2112 cod. civ. quando prevede la facoltà del lavoratore di “esercitare il recesso ai sensi della normativa in materia di licenziamenti”.


Chiarito che né il diritto comunitario né l’attuale normativa interna riconoscono in capo al lavoratore un diritto di opposizione, rimanendo irrilevante il suo consenso al trasferimento del ramo d’azienda presso cui presta la propria attività lavorativa, il problema ritorna necessariamente ad essere di ordine interpretativo in relazione alla esatta individuazione dell’ambito di applicazione della norma, dal momento che il consenso del lavoratore alla cessione sarà da considerarsi essenziale, ai sensi dell’art. 1406 cod. civ., quando l’operazione economica non rientri nella previsione legale dell’art. 2112 cod.civ..


La questione presenta indubbie difficoltà, per due ordini di ragioni.


In primo luogo, la nozione smaterializzata di azienda mette in discussione il principio dell’insensibilità del lavoratore alle vicende circolatorie dell’impresa o di un suo ramo presso cui presta il proprio lavoro. Secondariamente, la novella del 2003 che ha eliminato il riferimento ai requisiti della preesistenza e della identità del ramo ceduto potrebbe favorire pratiche fraudolente di licenziamenti collettivi mascherati da cessioni di ramo d’azienda.


Quest’ultima questione accennata non sconvolgerebbe il sistema finora delineato, soprattutto per il vincolo comunitario che impone la preesistenza e l’identità del ramo ceduto quali fattori determinanti per individuare quali siano cessioni lecite oppure no[29].


La nozione smaterializzata di impresa, invece, presenta moltissime implicazioni di carattere teorico ed applicativo. Se, infatti, non è più necessario che il trasferimento riguardi anche i beni materiali, ma può consistere anche nella cessione di mere prestazioni lavorative, seppur organizzate, come si giustifica il fatto che il lavoratore interessato non possa prestare il proprio consenso al trasferimento? Come si è cercato di descrivere, infatti, il consenso del lavoratore alla cessione poteva essere sacrificato dal momento che quest’ultimo, a seguito della cessione, si ritrovava comunque nella stessa struttura, materiale ed immateriale, cui era originariamente adibito. Se poi le proprie condizioni di lavoro subivano una “sostanziale modifica” nel corso dei tre mesi successivi al trasferimento, egli poteva scegliere se rassegnare o meno le proprie dimissioni.


Oggi, invece, accettando la possibilità di trasferire le attività di lavoratori organizzati, e quindi cioè soltanto la struttura immateriale del ramo di azienda, sarà più difficile, a posteriori, comprendere se tale cessione sia lecita oppure no.


Come si è visto in precedenza, la Cassazione ha risolto il problema facendo leva sul requisito dell’organizzazione, che è lo strumento mediante il quale singole attività di lavoro vengono coordinate al fine di produrre servizi e beni, suscettibili di essere immessi nel mercato e che giustifica la tesi della liceità della mera cessione di un gruppo di lavoratori, che, al limite, potrebbe essere richiamato dall’impresa cedente mediante contratto di appalto.


Il problema è, quindi, quello di capire se il requisito dell’organizzazione, insieme a quello della preesistenza e della identità imposti dalla normativa comunitaria, ma eliminati dal legislatore nazionale, possano ritenersi adeguati a mantenere il livello di tutele finora riconosciuto ai lavoratori. Questo interrogativo non potrà che trovare risposta nella prassi applicativa e negli orientamenti che informeranno le decisioni dei nostri giudici.
























[1] La disciplina del trasferimento di azienda, infatti, è stata oggetto di una serie di riforme legislative, imposta anche dal diritto comunitario. Per una ricostruzione sintetica delle modifiche intervenute in questi anni v.di G. GRANDI, Il trasferimento di azienda e i fenomeni di esternalizzazione, in Lavori e precarietà, a cura di Bortone, Damiano e Gottardi, Roma, 2004, p. 69 e ss.




[2] Per una ricostruzione del dibattito si rinvia a G. QUADRI, Processi di esternalizzazione. Tutela del lavoratore e interesse dell’impresa, Napoli, 2004.




[3] P. ICHINO, Lezioni di diritto del lavoro. Un approccio di labour law and economics”, Milano, 2004, p. 216.




[4] V. SPEZIALE, L’intermediazione nell’uso della forza lavoro, in Lavori e precarietà, op. cit., Roma, 2004, p. 67.




[5] V. SPEZIALE, op. cit., p. 67.




[6] Sul tema si rinvia all’analisi condotta da V. SPEZIALE, op. cit.




[7] M. LA TERZA, Mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda, in Il diritto del lavoro, a cura di Amoroso, Di Cerbo, Maresca, Milano, 2004, I, p. 742.




[8] F. SCARPELLI, Nozione di trasferimento di ramo di azienda e rilevanza del consenso del lavoratore, RIDL, 2003, 1, p. 148.




[9] Per una ricostruzione attenta della finalità della disciplina in esame si rinvia a P.ICHINO, Il contratto di lavoro, III, Milano, 2003, p. 571 e ss.




[10] F. SCARPELLI, op. cit., p. 150.




[11] M. GRANDI, Le modificazioni del rapporto di lavoro …




[12] M. LA TERZA, Mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda, op. cit., p. 745




[13] G. SANTORO PASSARELLI, RIDL, 2003, 2, p. 191.




[14] Sul punto si ricorda l’espressione di G. GRANDI, op. cit., secondo cui “una disciplina dunque nata per regolare e favorire la circolazione dell’azienda, ma successivamente ed indirettamente divenuta strumento di tutela per i lavoratori”




[15] Alcuni autori, come V. BAVARO, op. cit., preferiscono parlare di mutazione genetica, anzichè di eterogenesi dei fini.




[16] G. SANTORO PASSARELLI, op. cit., p. 191.




[17] V. BAVARO, op.cit., p. 176.




[18] Sul tema si rinvia a R.ROCCELLA, T.TREU, Il diritto del lavoro della comunità europea, 2003, p. 288.




[19] Corte di Giustizia 11 marzo 1997, causa C – 13/95.




[20] Cass. 22 luglio 2002, n. 10701, Cass. 10 gennaio 2004, n. 206.




[21] A. ANDREONI, Impresa modulare, trasferimenti di azienda, appalti interni: la softw law sul ciclo di produzione, in Il lavoro tra progresso e mercificazione. Commento critico al decreto legislativo n. 236/2003, a cura di G. GHEZZI, Roma, 2004, p. 193.




[22] In proposito si veda, per tutte, Sentenza Suzen, Corte di Giustizia CE, 11 marzo 1997, C-13795.




[23] R. DE LUCA TAMAJO, RIDL, 2003, 2, p. 169.




[24] G. SANTORO PASSERELLI, Trasferimento di azienda e di suo ramo, in RIDL, 2003, 2, p. 190




[25] L’espressione è di ROMEI, Cessione di ramo di azienda e appalto, DLRI, 1999, p. 349




[26] F. SCARPELLI, op. cit.




[27] Pret. Milano, 14 maggio 1999.




[28] U. RUNGGALDIER, Trasferimnento d’azienda e consenso del lavoratore alla cessione del contratto, DLRI, 1999; M. MAGNANI, trasferimento d’azienda ed esternalizzazioni; S. CIUCCIOVINO, La disciplina del trasferimento d’azienda.




[29] Sul tema si è da subito sviluppato un ampio dibattito di cui non è possibile dar conto in questa sede. Qui si proponde per la tesi sostenuta da V. BAVARO, op.cit.




 
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