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   domenica 4 giugno 2006

LA TUTELA DEI LAVORATORI ESPOSTI AD AMIANTO.

di approfondimento dell Avv. Cora Biondini

LA TUTELA DEI LAVORATORI ESPOSTI AD AMIANTO.



SOMMARIO: 1) premessa; 2) il nesso di causalità; 3) la colpa del datore di lavoro; 4) il recente cambio di direzione della giurisprudenza di legittimità; 5) i benefici previdenziali.




I) PREMESSA



Nelle controversie aventi ad oggetto le malattie professionali da amianto, specie nell’ipotesi di mesotelioma, il lavoratore (o gli eredi nel caso di suo decesso) ha l’onere di provare la colpa del datore di lavoro ed il nesso di causalità tra l’attività svolta e la malattia.


Questi due punti focali, in assenza dei quali è negata ogni responsabilità in capo all’azienda e qualsiasi diritto al risarcimento del danno, sono determinanti sia in sede civile che in sede penale.


In altre parole, allorquando il lavoratore affetto da tecnopatia si accinge ad ottenere giudizialmente un risarcimento del danno per aver contratto la malattia nel luogo di lavoro e a causa della negligenza del datore dovrà, necessariamente, dimostrare che la malattia è stata cagionata dalla inalazione di fibre di amianto nell’ambiente di lavoro e che l’azienda ha trascurato colpevolmente di adeguare i sistemi di sicurezza alla pericolosità dell’ambiente dovuta alla lavorazione dell’amianto.



2) IL NESSO DI CAUSALITA’



Sul tema del nesso di causalità la dottrina penalistica ha dibattuto spesso e molto finendo con l’elaborare nel tempo molteplici teorie più o meno criticabili ed idonee a dare adeguata soluzione al caso concreto.


Oggi la teoria fatta propria dalla giurisprudenza sia di merito che di legittimità è quella che ha optato per un riadattamento della teoria Von Buti della “conditio sine qua non”secondo la quale il nesso di causalità va accertato con riguardo alla ripetitività dell’evento, considerati tutti gli antecedenti necessari che lo hanno determinato, con riferimento ad una legge generale di copertura comprendente non solo il complesso delle leggi scientifiche, secondo cui ad un fattore segue un certo evento, ma anche quelle probabilistiche in virtù delle quali è necessario stabilire con quale percentuale si verifichi un evento, considerati alcuni antecedenti.


In tal modo, dal punto di vista teorico, si avrà un nesso di causalità, rispetto ad un antecedente, solo se l’evento si realizza in maniera regolare e conforme nel tempo rispetto ad una legge di copertura mentre, dal punto di vista pratico, dovrà stabilirsi se, con l’apporto umano quel determinato effetto si sia verificato o meno con un alto grado di probabilità e non più con un grado di certezza assoluta o di regolarità senza alcuna eccezione.


Tale teoria, detta anche “probabilistica”, si adegua maggiormente alla necessità di individuare il nesso di causalità allorquando un determinato effetto è stato provocato da una pluralità di cause e ben si adatta, anche, alle numerose controversie sorte in sede di risarcimento del danno dei lavoratori affetti da mesotelioma causato dall’eccessiva esposizioni a fibre di amianto.


In tale direzione sono numerose e concordi le pronunce della Giurisprudenza penale e civile, di merito e di legittimità, che sostengono che se è provata una elevata esposizione ad amianto dovrà per forza di cose affermarsi che, con elevato grado di probabilità scientifica e di credibilità razionale, l’attività di lavoro sia stata causa della malattia senza che per questo venga meno la necessità e l’obbligo di un accertamento rigoroso dei fatti (Cass. Civ., sez. lavoro, 20 maggio 2004, n. 9634; Cass. Civ, sez. lav. 12 maggio 2004, n. 9057; Cass. Penale, sez. IV 11 luglio 2002 n. 988; Cass. Penale, sez. IV, 30 marzo 2000).


Ciò perché nel corso degli anni e di tutti gli accertamenti scientifici compiuti è stato appurato che: 1) si ammalano più di mesotelioma i lavoratori esposti ad amianto che altri; 2) l’esposizione dovuta ad esercizio di attività lavorativa è più intensa rispetto a quella extra professionale; 3) quanto più si resta esposti alla inalazione delle fibre di amianto tanto maggiore sarà elevato il rischio di ammalarsi di mesotelioma; 4) nei soggetti esposti per lavoro ad amianto i tempi di latenza della malattia diminuiscono di modo che l’esposizione anche successivamente all’innesco della malattia accelera l’evento e influisce sulla durata e sulla aspettativa di vita (in sostanza l’amianto non solo favorisce l’insorgere della malattia ma ne accelera lo sviluppo).[1]


In altre parole l’esposizione ad amianto per motivi professionale è sempre causa dell’insorgere e dello sviluppo del mesotelioma.


Al di là degli aspetti più propriamente giuridici del nesso di causalità è curioso, però, precisare e ricordare, per chi già lo sapesse, che il carcinoma causato dalla inalazione di fibre di amianto è una malattia tabellata ai fini del riconoscimento di una rendita INAIL e che in tale sede il lavoratore non ha nemmeno l’onere di provare il nesso di causalità tra la malattia e la lavorazione in quanto già riconosciuto dalla legge e, quindi, presunto.


In sostanza, il lavoratore avrà diritto ad una rendita per malattia professionale da parte dell’Istituto competente senza dover fornire prova alcuna mentre se vuole un risarcimento del danno dal datore di lavoro per inadeguato e colpevole utilizzo degli strumenti posti a tutela della sicurezza dei luoghi di lavoro dovrà nuovamente dimostrare, tra l’altro con procedimento molto più rigoroso, ancora una volta la sussistenza di un nesso di causalità.


In realtà si ritiene che il riconoscimento del carcinoma polmonare come malattia tabellata e, dunque, come malattia con eziopatogenesi lavorativa non può che essere già un elemento che sia in grado di ricollegare in modo certo e credibile la malattia al lavoro.


Non si dimentichi, poi, che nelle malattie professionali il nesso di causalità sussiste anche quando si sia dimostrato che l’evento si sarebbe verificato in tempi più lontani o, quando alla stessa omissione sia ricollegabile una accelerazione sui tempi di latenza di una malattia provocata da un’altra causa. Addirittura, sulla scorta di tali principi, in caso di omicidio colposo di lavoratore esposto ad amianto e fumatore, è stato riconosciuto il nesso di causalità tra condotta del datore di lavoro e malattia, in quanto l’esposizione alla inalazione di polveri di amianto, anche per chi ha l’abitudine al fumo di tabacco, ha una efficacia di concausa con effetto sinergico (Cass. Pen, sez. IV, 11 luglio 2002, n. 988)



3) LA COLPA DEL DATORE DI LAVORO



Per quanto riguarda l’onere della prova della colpa del datore di lavoro è prima opportuno fare un passo indietro per esaminare quali sono le norme poste a tutela della salute del lavoratore nei confronti delle polveri di amianto.


Accanto alla conosciuta norma di chiusura del sistema antinfortunistico rinvenibile all’art. 2087 c.c. che impone al datore di lavoro, anche nel caso in cui manchi una specifica misura preventiva, di porre in essere tutte le cautele necessarie, dal punto di vista della tecnica e della esperienza, a tutelare l’integrità fisica del lavoratore, si pone il D.P.R. 3030/1956 rivolto a tutte le lavorazioni insalubri e polverose di qualunque specie, che prevede tre precisi obblighi a carico del datore di lavoro: 1) utilizzare dispositivi di protezione (art. 4); 2) separare le lavorazioni nocive (art. 19); 3) proteggere dalla diffusione e propagazione delle polveri (art. 20 e 21).


L’inosservanza di tali obblighi determina, di per sé, una responsabilità penale per il datore di lavoro e di chi per esso si occupa della fase produttiva in cui il contatto con agenti e fattori produttivi possano cagionare un danno alla salute dei dipendenti (CFR. Tribunale di Massa, 13 gennaio 2004).


Nella maggior parte delle causa di risarcimento improntate dai lavoratori è sempre emerso nelle fasi istruttorie che i datori di lavoro non hanno mai approntato alcuna misura di informazione e prevenzione a tutela dei lavoratori all’epoca delle relative condotte. Tuttavia, nei giudizi relativi al mesotelioma tali datori hanno sempre richiesto una esenzione da qualsiasi responsabilità proprio sotto il profilo della colpa. Essi, infatti, hanno sempre sostenuto che al momento della condotta, che può essere anche molto risalente nel tempo, non sapevano di quanto potesse essere nocivo l’amianto anche a basse esposizioni né tantomeno sapevano che lo stesso avrebbe potuto causare il mesotelioma. Il velo si sarebbe squarciato solamente con il D. Lgs. 277/1991 il quale ha dettato norme sulla prevenzione dall’amianto in particolare. Ma anche se tali datori avessero potuto sapere prima di tale nocività non avrebbero, comunque, potuto fare nulla per la mancanza di misure atte, all’epoca della condotta, ad evitare l’ingestione anche di una sola unica fibra.


Ora, quanto alla difesa principale relativa al “non potevamo sapere” la Corte di Cassazione ha sempre precisato che in materia di malattie correlate all’asbesto, la prevedibilità dell’evento “non riguarda soltanto specifiche conseguenze dannose che da una certa condotta possono derivare, ma si riferisce a tutte le conseguenze dannose che possono derivare da una condotta conosciuta come pericolosa”. Ancora meglio “la circostanza che la condotta antidoverosa, per effetto di nuove conoscenze tecniche scientifiche, risulti nel momento del giudizio produttiva di un evento lesivo, non conosciuto quale possibile implicazione nel momento in cui è stata tenuta, non esclude la sussistenza del nesso causale e dell’elemento soggettivo del reato sotto il profilo della prevedibilità, quando l’evento verificatosi offenda lo stesso bene alla cui tutela avrebbe dovuto indirizzarsi il comportamento richiesto dalla norma , e risulti che detto comportamento avrebbe evitato anche la lesione in concreto attuata” Cass. Penale, 988/2003- estratto).


In realtà, si sapeva da molto tempo che l’amianto era una sostanza nociva tanto che già con la L. 455/1943 l’asbestosi era stata inserita nell’elenco delle malattie professionali tabellate mentre del nesso tra amianto e mesotelioma si è comincIato a parlare già negli anni 60.[2]


Da ciò discende che ai fini della responsabilità colposa, generica e specifica, per la morte di un lavoratore per malattia professionale non si richiede che il datore si sia rappresentato in modo specifico la prevedibilità dell’evento letale o addirittura il decorso causale attraverso cui si può giungere alla morte ma è necessario e sufficiente che il soggetto agente abbia potuto prevedere che, adottando le misure imposte dalla legge si sarebbe potuto evitare un grave danno alla salute o un danno alla vita (Cass. Pen. Sez IV, 30 marzo 2000). Quindi, il datore può andare esente da colpa dimostrando cosa ha fatto nel rispetto della legge per tutelare i lavoratori esposti ad amianto.


Per tutiorismo si mette in evidenza il fatto che oramai numerose sono le sentenze della Suprema Corte di Cassazione che rinvengono nel datore di lavoro la colpa specifica per la violazione di norme in materia di tutela della salute del lavoratore anche quando la norma è stata posta a presidio di un altro interesse (prevenire l’asbestosi e non il mesotelioma) poichè ciò che va tutelato è il diritto alla salute del lavoratore ed in tal caso la tutela contro l’inalazione di polveri nocive.(una su tutte Cass. Penale, sez IV, 18 febbraio 2003, n. 20032)


Tra l’altro, le misure che dovevano essere apprestate per evitare l’insorgere dell’asbesto erano le stesse previste per evitare l’insorgere del mesotelioma: in ogni caso dovevano assumersi delle misure a prevenzione dell’insorgere di malattie polmonari derivanti dalla inalazione di polveri di amianto.


In definitiva, l’amianto costituisce una sostanza altamente pericolosa la cui nocività era già nota da prima degli anni 50 nocività che è estremamente elevata per i lavoratori che si trovano a stretto contatto con il materiale da lavorare e che poteva essere ridotta con l’utilizzo di misure adeguate.


La conoscenza della pericolosità di tale sostanza avrebbe dovuto consentire al datore di lavoro di prefigurarsi la possibilità dello svilupparsi nel tempo di malattie legate al suo utilizzo di modo che l’assenza di accorgimenti e di informazione a tutela dei lavoratori non poteva e non può non mandarlo esente da colpa nella causazione della malattia professionale correlata. Questo dovrebbe far si che le controversie relative al risarcimento del danno intentate dai lavoratori affetti da mesotelioma nei confronti dei datori di lavoro siano meramente scolastiche una volta dimostrato che il datore non ha mai posto in essere misure a tutela degli stessi.


In ogni caso vi è sempre l’eccezione a conferma della regola.



4) IL RECENTE CAMBIO DI DIREZIONE DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITA’



La sentenza della Corte di Cassazione Civile n. 7362 dell’11 aprile 2005, non rilevando alcun vizio nella sentenza di secondo grado, ha, in breve, escluso che potesse rinvenirsi una colpa in capo al datore di lavoro ed un nesso di causalità tra il mesotelioma contratto dal lavoratore e la lavorazione dell’amianto in quanto ciò che risulta nocivo non è la polvere di tale materiale ma la fibra e, poiché la malattia risulta essere dose-dipendente, può colpire anche soggetti non specificamente esposti a rischio. Di conseguenza la probabilità che l’esposizione ad amianto sul luogo di lavoro abbia portato il lavoratore alla morte non può dirsi qualificata.


Per meglio comprendere l’Iter percorso basta dire che il Giudice di secondo grado nello stendere la propria motiviazione è partito dalla considerazioni effettuate dal CTU arrivando a sostenere infine che: 1) il mesotelioma pleurico a differenza delle altre forme di cancro è dose dipendente ed il rischio di contrarre la patologia è possibile anche ad esposizioni basse o minime così che pur essendo possibile che la malattia si insorta a causa del lavoro non poteva parlarsi di probabilità elevata; 2) essendo la patologia in questione causata anche dalla inalazione di una sola dose l’instaurazione anche del più potente aspiratore di fibre di amianto non avrebbe completamente eliminato il rischio così’ da escludere non solo la colpa del datore di lavoro ma anche un qualsiasi nesso causale tra il comportamento omissivo del datore e l’evento.


Viene, dunque, scardinato un orientamento ormai consolidato.


A questo punto è opportuno mettere in evidenza nuovamente che: 1) il carcinoma causato dalla esposizione all’amianto è una malattia professionale tabellata che per il suo riconoscimento non attribuisce al lavoratore l’onere di provare il nesso di causalità in quanto presunto; 2) dati statistici e studi approfonditi hanno chiarito che l’esposizione ad amianto è più pericolosa se professionale e che tanto più è lunga l’esposizione tanto maggiore sarà il rischio di contrarre la malattia; 3) la nocività dell’amianto è conosciuta oramai da mezzo secolo e il legislatore è di volta in volta intervenuto a garantire il diritto alla salute del lavoratore obbligando il datore di lavoro ad approntare misure idonee, in ogni caso rispetto alle tecniche dell’epoca, ad evitare la sovraesposizione.


Invece, Escludere a priori la responsabilità del datore di lavoro significa: a) negare una tutela dovuta e costituzionalemnte garantita al lavoratore (il diritto alla salute); b) sostenere che non si poteva e non si può fare nulla per evitare di contrarre il mesotelioma; c) giustificare il comportamento del datore di lavoro anche quando non ha fatto nulla, si badi bene, di quanto ex lege previsto per proteggere la salute del lavoratore (perché tanto non sarebbe servito ad azzerare il rischio di contrarre la malattia). Ma se è vero- ed è scientificamente provato- che chi viene a contatto con l’amianto per motivi extraprofessionali ha un rischio ridottissimo di ammalarsi è anche vero che una ridotta esposizione riduce l’insorgere della malattia o ne allunga i termini di latenza.


È, comunque, certo, in conclusione, che una sentenza di tal fatta crea un precedente a cui la giurisprudenza sia di merito che di legittimità può accodarsi e che per i lavoratori colpiti da mesotelioma non esiste attualmente un indirizzo giurisprudenziale preciso che possa loro accordare la tutela che meritano.



5) I BENEFICI PREVIDENZIALI



Da ultimo non va dimenticata la tutela previdenziale dei lavoratori esposti ad amianto.


La L. 27 marzo 1992 n. 257 ha dettato tutta una serie di norme per la cessazione dell’impiego dell’amianto e per la bonifica della aziende dove questo veniva usato, lavorato e commercializzato ma ha anche previsto dei benefici previdenziali per i lavoratori occupati nelle imprese che utillizavano o estraevano questo materiale.


Solo l’esposizione ultradecennale ad amianto consentiva, per lo meno fino al c.d. maxidecretone collegato alla finanziaria 2004, di moltiplicare per il coefficiente di 1,5 gli anni di esposizione così riconosciuti e certificati dall’INAIL. Tale moltiplicazione serviva sia ai fini contributivi che a fini pensionistici così che il lavoratore poteva andare in pensione anticipatamente per effetto della anzidetta moltiplicazione e godere di una pensione quantitativamente più “pesante”.


Con l’art. 47 del D.L. 269/2003 convertito nella l. 326/03 sono state apportate alcune modifiche.


Prima di tutto il coefficiente di moltiplicazione serve, ormai, solo a fini contributivi e non anche pensionistici, in secondo luogo viene aumentata la concentrazione di fibre di amianto nell’aria respirate considerando come ultima data utile il 2 ottobre 2003.


Dal punto di vista della questione oggi trattata la L. 257/1992 è importante proprio in quanto mette ancora una volta in risalto la pericolosità dell’amianto e la necessità del suo smaltimento; tuttavia, alcune critiche sono opportune.


Per esperienza personale, nelle cause civili legate al riconoscimento dei benefici previdenziali per l’esposizione ultradecennale all’amianto è stato spesso preso come punto di riferimento il 31.12.1992 quale termine ultimo in cui l’amianto era presente nelle aziende che lo trattavano (lavorandolo o commercializzandolo) presupponendo o certificando l’avvenuta bonifica. Anzi in alcuni casi si è fatto riferimento a periodi anche precedenti sulla base di certificazioni che ne “dimostravano” l’avvenuto smaltimento.


In realtà, non è da escludere che i termini di bonifica siano stati più lunghi o che alcune aziende abbiano continuate ad utilizzare amianto anche quando il suo uso non era più consentito (ancora oggi, a più di dieci anni di distanza, continuano le bonifiche e le decontaminazioni in edifici costruiti con l’utilizzo dell’amianto) quindi i lavoratori hanno sicuramente respirato amianto per molto più tempo di quello che gli veniva e che gli è stato riconosciuto.


Per quanto riguarda la modifica dei benefici previdenziali tutto ruota attorno al fatto dell’avvenuto smaltimento; prima il beneficio del pensionamento anticipato i lavoratori era data dalla necessità di evitare una ulteriore esposizione ad una sostanza già respirata e maneggiata in notevoli quantità e per evitare, quindi, il protrarsi dell’esposizione a rischio. Ora, scomparso l’amianto, il beneficio serve solo per avere più soldi in tasca al momento della corresponsione della pensione sempre che la domanda di riconoscimento si stata presentata, a pena di decadenza, entro il 15 giugno 2005.


In realtà, anche il beneficio contributivo ha il suo punto debole: aumentando la concentrazione delle fibre di amianto a cui, annualmente, il lavoratore è esposto resta ormai difficile ottenere un riconoscimento favorevole posto che, in ogni caso, negli ultimi anni se l’uso dell’amianto non è stato eliminato in maniera drastica è andato, comunque, via via scemando.


Alla resa dei conti anche in questo caso a fare le spese di tali cambiamenti è il lavoratore che ha, quindi, continuato a lavorare a toccare e a respirare amianto anche per periodi ormai non più riconosciuti e che si è visto ridurre i benefici previdenziali a suo tempo accordatigli tanto da far pensare che la sua tutela, in ogni campo, sia e rimanga solamente una utopia.





Avv. Cora Biondini








[1] Si vedano gli studi compiuti da C. Bianchi, A. Brillo, L. Ramani e altri in Asbestos exposure in mesothelioma of the pleura: a survey of 557 cases o De Klerk e altri Asbestos and lung cancer: is atributable to asbestosis or to asbestos fiber burden?.




[2] Nel 1960 veniva pubblicato un articolo sul British Journal of Industrial Medicine il quale individuava in 40 anni il periodo medio di induzione e latenza della malattia.




 
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