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11/11/2016
I DOCENTI E GLI ATA PRECARI O GIA´ DI RUOLO POSSONO OTTENERE PER INTERO IL RICONOSCIMENTO DEL PERIODO PRERUOLO
La sentenza n. 22558/2016 della Suprema Corte di Cassazione Sezione Lavoro del 07.11.2016 è una sentenza storica per il mondo della SCUOLA PUBBLICA.
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10/04/2016
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27/11/2013
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25/11/201
Pubblico dipendente, libero professionista, obbligo d´iscrizione alla Gestione Separata Inps
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05/05/2013
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   giovedì 17 giugno 2004

IL DANNO ALLA PROFESSIONALITÀ È DI NATURA NON PATRIMONIALE

del Prof. Mario Meucci

IL DANNO ALLA PROFESSIONALITÀ È DI NATURA NON PATRIMONIALE

Con la recente decisione n. 10157 del 26 maggio 2004 – in tema di dequalificazione professionale – la sezione lavoro della Corte di cassazione prende atto ed aderisce al recente orientamento (delineato da Cass. III sez. civ. nn.8827 e 8828, da Corte cost. n. 233/2003 e da Cass. IV sez. pen. n. 2050/2004) secondo cui il danno da violazione di diritti costituzionalmente protetti, quale nel caso il diritto all’autorealizzazione nel lavoro secondo le mansioni e la qualifica rivestita, costituiscono lesioni della dignità e dell’immagine professionale, riconducibili nell’alveo del depenalizzato art. 2059 c.c. e quindi rinvengono quale danno non patrimoniale (o esistenziale), liquidabile senza prova di pregiudizio patrimoniale e necessariamente solo in via equitativa.



Sommario:

1. Il caso esaminato e deciso

2. I danni da lesione dei diritti costituzionali afferiscono al “danno non patrimoniale”: i precedenti giurisprudenziali

3. La riconducibilità del danno alla professionalità al danno “non patrimoniale” (o esistenziale)

4. Conseguenze sul regime probatorio

5. Le “sacche” di resistenza al nuovo orientamento





1. Il caso esaminato e deciso

Giuseppe M. dipendente della S.p.A. Autogrill con qualifica di quadro A, ha svolto l’incarico di direttore del negozio Motta Duomo di Milano sino all’ottobre del 1991, quando è stato trasferito al più piccolo esercizio Alemagna di Via Manzoni, con mansioni inferiori a quelle in precedenza svolte, per ritenuta incompatibilità ambientale derivante da un procedimento disciplinare, conclusosi successivamente con l’applicazione di una sanzione conservativa. Sia il trasferimento che il procedimento disciplinare sono stati dichiarati illegittimi dal Tribunale di Milano con sentenza n. 5638 del 1995, confermata dalla Cassazione con sentenza n. 3207 del 1998. Successivamente, dopo essersi dimesso, il lavoratore – nel 1998 - ha chiesto al Pretore di Milano, tra l’altro, di condannare l’azienda al risarcimento per l’ingiusta dequalificazione subita. Il Pretore ha rigettato la domanda. Il Tribunale ha confermato questa decisione, rilevando che il lavoratore non aveva offerto la prova del “danno patrimoniale” derivatogli dalla dequalificazione. Giuseppe M. ha proposto ricorso per cassazione sostenendo che, essendo stata accertata la dequalificazione da lui subita, il Tribunale avrebbe dovuto riconoscergli sia il danno alla professionalità in senso soggettivo, avendo l’illegittimo provvedimento aziendale leso il suo diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità nel luogo di lavoro, sia il danno alla professionalità in senso oggettivo, per la minore dimensione e la minore importanza dell’unità produttiva di destinazione rispetto a quelle dell’unità di provenienza e per il conseguente irrimediabile impoverimento del patrimonio professionale. Egli ha anche censurato la decisione del Tribunale di Milano perché non ha riconosciuto il danno alla sua immagine e alla sua dignità per le modalità umilianti del trasferimento e per la perdita di autostima ed eterostima, nonché il danno conseguente alla perdita di chances professionali sia nell’ambito della società, sia sul mercato del lavoro.

La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 10157 del 26 maggio 2004, Pres. Senese, Rel. D’Agostino, riportata in questa Rivista a pag....) ha accolto il ricorso affermando che il Tribunale di Milano è incorso in errore negando l’applicazione del criterio equitativo per la liquidazione del risarcimento e pretendendo dal danneggiato la prova specifica della diminuzione patrimoniale sofferta. La Corte ha richiamato la sua giurisprudenza secondo cui la dequalificazione non solo viola lo specifico divieto dell’art. 2103 cod. civ., ma si traduce in lesione di un diritto fondamentale del lavoratore avente ad oggetto la libera esplicazione – garantita dagli artt. 1 e 2 della Costituzione – della sua personalità anche nel luogo del lavoro, con la conseguenza che il pregiudizio correlato a siffatta lesione, spiegandosi nella vita professionale e di relazione dell’interessato, ha un’indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento, per la cui determinazione e liquidazione da parte del giudice, può trovare applicazione il criterio equitativo ex art. 1226 cod. civ.

Il danno da dequalificazione, nel quale - ha affermato la Corte - possono essere ricompresi come specifici aspetti sia la perdita di chances che il danno all’immagine, rientra, come il danno biologico, nel danno non patrimoniale; quest’ultimo secondo la più recente giurisprudenza è infatti comprensivo del danno biologico (inteso come lesione dell’integrità psico fisica della persona secondo i canoni fissati dalla scienza medica), del danno morale (tradizionalmente inteso come sofferenza psichica e patema d’animo sopportati dal soggetto passivo dell’illecito) e della lesione di interessi costituzionalmente protetti. Infatti «secondo tale giurisprudenza, nel vigente assetto dell’ordinamento, nel quale assume posizione preminente la Costituzione, che all’art. 2 riconosce i diritti inviolabili dell’uomo, il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona, che non si esaurisca nel danno morale e che non sia correlato alla qualifica di reato del fatto illecito ex art. 185 cod. pen.; unica possibile forma di liquidazione del danno privo delle caratteristiche della patrimonialità» - ha precisato la Corte - «è quella equitativa, sicché la ragione del ricorso a tale criterio è insita nella natura di tale danno e nella funzione del risarcimento realizzato mediante la dazione di una somma di danaro che non è reintegratrice di una diminuzione patrimoniale, ma compensativa di un pregiudizio non economico (cfr. Cass. n. 8827 del 2003, Cass. n. 8828 del 2003)».

I provvedimenti del datore di lavoro che illegittimamente ledono il diritto del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro secondo le mansioni e con la qualifica spettantigli per legge – ha affermato la Corte – vengono immancabilmente a ledere l’immagine professionale, la dignità personale e la vita di relazione del lavoratore, sia in termini di autostima e di eterostima nell’ambiente di lavoro ed in quello socio familiare, sia in termini di perdita di chances per futuri lavori di pari livello; la valutazione di siffatto pregiudizio, per sua natura privo delle caratteristiche della patrimonialità, non può che essere effettuata dal giudice che alla stregua di un parametro equitativo, essendo difficilmente utilizzabili parametri economici o reddituali (Cass. n. 8827 del 2003).



2. I danni da lesione dei diritti costituzionali afferiscono al “danno non patrimoniale”: i precedenti giurisprudenziali

Le conclusioni raggiunte sono del tutto corrette e affondano su precedenti della stessa sezione civile della Cassazione, pienamente condivisi dalla più autorevole dottrina, dalla Corte costituzionale e dalla sezione penale della Cassazione – che ha avuto modo di effettuare penetranti approfondimenti sul danno non patrimoniale di natura esistenziale nella sua decisione del 22 gennaio 2004 n. 2050 - decisione afferente al noto caso Barillà, piccolo imprenditore artigiano privato della libertà personale per ingiusta detenzione durata circa 7 anni e mezzo, riconosciuto innocente per i reati addebitatigli e risarcito giudizialmente, per danni patrimoniali e non patrimoniali, dalla Corte di appello di Genova con quasi 8 miliardi di vecchie lire (per la precisione € 3.947.994,00) a carico del Ministero delle Finanze ed altri dicasteri governativi (di cui 2 miliardi di lire a titolo di danno esistenziale).

L’evoluzione giurisprudenziale più significativa in tema di «danno non patrimoniale» è recentissima. Con due sentenze depositate il medesimo giorno (31 maggio 2003 nn. 8828, che indica le soluzioni proposte, e 8827 che, su questi temi, richiama e fa proprie le argomentazioni dell’altra sentenza) la terza sezione civile della Corte di cassazione ha ribadito innanzitutto come non possa più essere ricondotto, il concetto di danno non patrimoniale, al mero danno morale soggettivo e ha interpretato l’articolo 2059 Cc nel senso che «il danno non patrimoniale deve essere inteso come che categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona». Ha ritenuto che una lettura costituzionalmente orientata dell’articolo 2059 Cc imponga di ritenere inoperante il limite posto da tale norma «se la lesione ha riguardato valori della persona costituzionalmente garantiti» ed in particolare i diritti inviolabili dell’uomo riconosciuti e garantiti dall’articolo 2 della Costituzione.

Il giudice civile di legittimità sembra propendere per un concetto unitario di danno non patrimoniale e ritiene non proficuo «ritagliare all’interno di tale generale categoria specifiche figure di danno etichettandole in vario modo: ciò che rileva, al fini dell’ammissione al risarcimento, in riferimento all’articolo 2059, è l’ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, dal quale conseguano pregiudizi non suscettivi di valutazione economica». In questa ottica le sentenze citate della terza sezione civile evitano di fare espresso riferimento al danno esistenziale ma l’esame dei casi presi in considerazione conferma che i danni accertati erano riferiti a questo tipo di danno (in un caso riguardavano la perdita del rapporto parentale; nell’altro lo sconvolgimento delle abitudini dei genitori conseguente alle gravissime lesioni subite dal figlio ridotto allo stato vegetativo) perché si riferivano a casi che la precedente giurisprudenza, anche di legittimità, collocava tra i danni di natura esistenziale.

Il danno morale è da intendere come danno morale soggettivo, consistente nella sofferenza psicologica o nel turbamento transitorio dello stato d animo provocato dal fatto illecito, è stato svincolato - ai fini del suo riconoscimento - dalla ricorrenza del reato, sia da Cass. n. 8827 e 8828/2003 sia da Corte cost. n. 233/2003, nell ottica di una interpretazione dell art. 2059 c.c. costituzionalmente aggiornata.

La nozione di danno biologico è frutto di elaborazione giurisprudenziale (ma recentemente ha trovato significative conferme a livello legislativo con l’entrata in vigore del D.Lgs 38/2000 e della legge 57/2001) ed è costituito dalla compromissione, di natura areddituale, dell’integrità psicofisica della persona. Generalmente è ritenuto necessario che a questa compromissione si accompagni una perdita o riduzione di funzioni vitali, anche non definitiva.

Sul punto della collocazione teorica del danno biologico deve rilevarsi che la qualificazione come danno non patrimoniale data dal giudice della riparazione appare del tutto corretta e confermata dalla giurisprudenza di legittimità. La lesione del bene giuridico tutelato non necessariamente comporta un pregiudizio di natura patrimoniale: chi vive esclusivamente di investimenti finanziari potrà continuare a farlo, e a percepire i medesimi introiti, anche se ha subito un gravissimo incidente che ne provoca l’immobilità. Per converso un danno biologico modesto (per es. una lesione permanente ad una mano) potrà provocare un danno economico rilevantissimo ad un affermato pittore o ad un noto pianista. Ma, in quest’ultimo caso, il danno economico andrà risarcito autonomamente come riduzione della capacità lavorativa (in questo caso specifica) e non come danno biologico che troverà un suo autonomo risarcimento (ma taluni, come si è già accennato, preferiscono usare, per il danno non patrimoniale e quindi anche per il danno biologico, il termine riparazione).

Fermo restando che il danno biologico è un danno di natura non patrimoniale, e come tale va considerato, il fondamento della tutela deve però rinvenirsi nell’articolo 2059 Cc e non nell’articolo 2043; e questa impostazione è stata autorevolmente accolta anche dalla Corte costituzionale che, investita per l’ennesima volta della questione di costituzionalità dell’articolo 2059 Cc, ha, con la sentenza 233/03, condiviso integralmente il mutamento giurisprudenziale del giudice di legittimità sul danno non patrimoniale e ha espressamente affermato la natura non patrimoniale del danno biologico tutelabile attraverso la tutela fornita dall’articolo 2059 Cc che, proprio in conseguenza di questa interpretazione costituzionalmente orientata, si è salvato ancora una volta dalla dichiarazione di incostituzionalità.

Non risultano condivisibili le preoccupazioni da taluno sollevate secondo le quali, tramite la dilatazione delle figure di danno non patrimoniale, si estenderebbe in modo abnorme una forma di responsabilità per sua natura dai contorni generici ed indefiniti, giacché a) anche il danno non patrimoniale richiede pur sempre l ingiustizia (oltreché l elemento soggettivo e il rapporto di causalità), b) il risarcimento del danno non patrimoniale avviene per lesione di interessi meritevoli di tutela con il parametro costituzionale (addirittura, se il riferimento è all art. 2, con la sola considerazione dei diritti inviolabili). Insomma ingiustizia del danno e valori costituzionali valgono sufficientemente a selezionare i danni meritevoli di tutela riparatoria, anche se provocati nell esercizio di attività legittime (ma con conseguenze ingiuste) rispetto a quelli "bagatellari" (es. danno da vacanza rovinata).

Il danno esistenziale è ricollegato ad un peggioramento non temporaneo della qualità della vita del danneggiato con un conseguente mutamento radicale delle sue abitudini, dei suoi rapporti personali e familiari. Sulla natura, presupposti e fondamento del danno esistenziale la dottrina è divisa...mentre la giurisprudenza è sempre più orientata a ritenere ammissibile la riparazione del danno esistenziale e questo percorso è da ritenere confermato dalle citate sentenze 8828 e 8827 e da quella della Corte costituzionale n. 233 (quest’ultima, a differenza delle altre due, fa esplicito riferimento anche al danno esistenziale).

Quanto al danno esistenziale non è condivisibile la critica di fondo – ancora da taluno sollevata - sostanzialmente lamentando che, con il riconoscimento del danno esistenziale, si opererebbe un’indebita duplicazione risarcitoria con il danno biologico. Questa duplicazione non esiste perché il danno esistenziale è cosa diversa dal danno biologico e non presuppone alcuna lesione fisica o psichica, né una compromissione della salute della persona, ma si riferisce ai già indicati sconvolgimenti delle abitudini di vita e delle relazioni interpersonali provocate dal fatto illecito. Si vedano gli esempi esaminati, e già accennati, nelle sentenze 8827 e 8828.

Neppure appare corretta l’affermazione secondo cui il danno morale soggettivo, non risarcibile per la ragione indicata, sarebbe di fatto assorbito dal danno esistenziale perché, anche con questa affermazione, si confonde la natura delle due tipologie di danno: il danno morale soggettivo (pati) si esaurisce nel dolore provocato dal fatto dannoso, è un danno transeunte di natura esclusivamente psicologica; il danno esistenziale (non facere ma anche un facere obbligato che prima non esisteva), pur avendo conseguenze di natura psicologica, si traduce in cambiamenti peggiorativi permanenti, anche se non sempre definitivi, delle proprie abitudini di vita e delle relazioni interpersonali.



3. La riconducibilità del danno alla professionalità al danno “non patrimoniale” (o esistenziale)

Il danno esistenziale sussiste a prescindere da lesioni concrete (a differenza del danno biologico), sussiste, altresì, al di là di una incidenza del fatto-evento su una prospettiva reddituale (a differenza del danno patrimoniale) ed, infine, sussiste anche in assenza di comportamenti penalmente rilevanti e secondo dottrina potrebbe essere ricondotto in una configurazione da genus a species, rispetto alle altre figure menzionate (danno biologico, danno morale) e si specificherebbe in quei danni alla personalità ricollegabili a lesioni dei diritti inviolabili della persona, costituzionalmente garantiti, che nel campo del lavoro, sono il danno professionale, il danno psicologico transeunte, il danno alla serenità della vita familiare e nella comunità lavorativa, alla salutare fruizione dei piaceri e delle gratificazioni della vita di relazione e dei rapporti sociali.

A differenza del danno biologico – il quale identificandosi nella concreta lesione suscettibile di accertamento medico-legale, deve essere provato rigorosamente nell’eziologia e nell’ entità, ai fini risarcitori – il danno esistenziale (nelle sfaccettature o componenti sopraspecificate), pur qualificato «lesione in sé», deve essere solo specificamente provato nei suoi stessi presupposti e può sussistere, come si è cercato di chiarire, anche in mancanza di una lesione, e presentarsi, anzi, come esclusiva ed unica conseguenza del fatto che si assume lesivo. Talché, una volta provati, tramite semplici indizi in ordine alla entità, intensità e durata del pregiudizio (per fare un esempio nel caso di demansionamento, una volta provata la consistente erosione di mansioni o la totale inattività, rifluenti rispettivamente nei caratteri della entità ed intensità del pregiudizio anche in relazione alla tipologia delle mansioni esplicate, nonché la durata del demansionamento) il pregiudizio sarà risarcibile dal giudice in via equitativa ex art. 1226 e 2056 c.c., in quanto dall’illegittimo comportamento demansionante conseguono – per valutazione di indizi concludenti e per dato di comune esperienza o fatto notorio ex art. 115 c.p.c. - i danni lamentati alla professionalità e all’immagine interno/esterna all’impresa. Nello stesso modo si dovrà procedere, ai fini risarcitori, anche nell’ipotesi (invero di netta minoranza in tema di danno da demansionamento), in cui si volesse disconoscere che il danno è “in re ipsa”, in quanto non è danno-evento ma danno-conseguenza, quantunque sul danno esistenziale da demansionamento la prevalente giurisprudenza della Cassazione degli ultimi 12 anni (id est dal 1992 in poi) abbia sostenuto talora che è “in re ipsa” e poi più correttamente si sia attestata nel sostenere la pacifica sufficienza della prova presuntiva riconoscendo che il puro danno professionale è risarcibile anche in mancanza di una rigorosa prova di pregiudizio patrimoniale (invero pressochè o del tutto impossibile a darsi), essendo intuitivo che le mansioni sottratte e non esercitate determinano, oltre alla lesione del diritto costituzionale all’autorealizzazione nel lavoro e nella formazione sociale dell’impresa (artt. 1 e 2 Cost.), altresì un automatico degrado professionale specialmente in capo alle qualifiche più specializzate e professionali. E’ infatti del tutto intuitivo e nozione di comune esperienza che il mancato espletamento di tali compiti occasiona inevitabilmente obsolescenza delle capacità specialistiche e, se preposti al coordinamento di risorse umane o di uffici, determina perdita esponenziale con il passare del tempo (per durata protratta del demansionamento) sia delle capacità decisionali o propositive, sia delle competenze e attitudini di coordinamento e addestrativo-formative dei collaboratori di cui si è subita la sottrazione, tramite ad esempio il ben noto espediente aziendale dello spostamento del demansionato da una posizione di “line” (o funzionale) ad una di “staff” (o di mero supporto o studio e ricerche uti singulus).

Nello stesso nostro ordine di idee si muove, in una relazione, un’autrice magistrato, la dr.sa Sanlorenzo del Tribunale di Torino sostenendo che: «...l’orientamento che ha posto...a carico del lavoratore demansionato l’onere di provare pienamente l’esistenza e l’entità del danno lamentato – richiesta il cui rigore se può sembrare razionale relativamente alla tipologia del danno biologico – davvero non pare adeguatamente considerare che, trattandosi di eventi dannosi che si producono pur sempre su beni immateriali, quali la professionalità, la dignità, l’immagine, anche se suscettibili di valutazione patrimoniale, comportano inevitabilmente il ricorso alla prova per presunzioni, che nel nostro ordinamento trova pieno diritto di cittadinanza attraverso la previsione dell’art. 2729 c.c.» (in “Il mobbing e il diritto del lavoratore alla prestazione lavorativa”, p.43 in http://dirittolavoro.altervista.org/mobbing_sanlorenzo.html). E nello stesso senso si esprime l estensore di Trib. Lecce 20 settembre 2002 dr. Buffa (in http://dirittolavoro.altervista.org., sezione Mobbing, giurisprudenza) secondo cui: «La violazione dell’art. 2103 c.c. assume dimensioni intollerabili ove il dipendente, ancorché senza conseguenze sulla retribuzione, sia lasciato in condizioni di forzata inattività e senza assegnazione di compiti. L’ inattività forzata del lavoratore è la forma più grave di dequalificazione e demansionamento e dal demansionamento o dalla forzata inattività del lavoratore non deriva solo un danno inerente il patrimonio del soggetto, ma anche un danno relativo alla sua professionalità, intesa essa sia come lesione al “patrimonio” professionale del dipendente sia come lesione alla qualità della vita dello stesso, e quindi un danno propriamente esistenziale, che colpisce la persona in quanto tale (si tratta di danni a beni immateriali, non suscettibile di valutazione medico-legale ma liquidabili solo in via equitativa)».

Al riguardo, a conforto di quanto detto, si cita la massima di Cass. sez. lav. 22 febbraio 2003, n. 2763, secondo cui: «Va cassata la sentenza resa in sede d’appello in quanto – nel negare il risarcimento del danno alla professionalità per asserita carenza di prova di pregiudizio patrimoniale da parte del dirigente dequalificato, confinato in inattività - ha ignorato come questa Corte ha ripetutamente avuto modo di sottolineare che dall articolo 2103 del codice civile si desume che sussiste il diritto del lavoratore all effettivo svolgimento della propria prestazione professionale e che la lesione di tale diritto da parte del datore di lavoro costituisce inadempimento contrattuale e determina, oltre all obbligo di corrispondere le retribuzioni dovute, l obbligo del risarcimento del danno da dequalificazione professionale, che può assumere aspetti diversi in quanto può consistere non solo nel danno patrimoniale derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità o nel pregiudizio subito per perdita di chance ossia di ulteriori possibilità di guadagno, ma anche - e tali aspetti, nella specie, sono stati completamente trascurati - in una lesione del diritto del lavoratore alla integrità fisica o, più in generale, alla salute ovvero alla immagine o alla vita di relazione (per tutte, Cass., 14 novembre 2001, n. 14199). Più in particolare ancora, occorre ribadire che la negazione o l impedimento allo svolgimento delle mansioni, al pari del demansionamento professionale, ridondano in lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore anche nel luogo di lavoro, determinando un pregiudizio che incide sulla vita professionale e di relazione dell interessato, con una indubbia dimensione patrimoniale che rende il pregiudizio medesimo suscettibile di risarcimento e di valutazione anche in via equitativa (Cass. 2 gennaio 2002, n. 10).»

Ed ancora, circa la non necessità di una (rigida) prova del danno alla professionalità: «Ove la parte abbia chiesto, con domanda di condanna specifica, la liquidazione del danno da dequalificazione, il giudice del merito che abbia accertato, anche tramite la prova presuntiva, l esistenza di un danno patrimoniale da dequalificazione (nella specie per significativa riduzione quantitativa delle mansioni), non può sottrarsi all obbligo di una sua determinazione, anche in via equitativa, per la quale può costituire utile elemento di riferimento l entità della retribuzione...» (Cass. n. 7967/2002); ed ancora:«la liquidazione equitativa ...deve essere compiuta anche quando sia addirittura mancata la dimostrazione, in via diretta, dell esistenza di un effettivo pregiudizio patrimoniale (Cass. 16 novembre 2000 n. 14443), dato che la prova presuntiva va ricavata dagli elementi di fatto relativi alla durata del demansionamento e dalle altre circostanze del caso concreto (Cass. 2 novembre 2001 n. 13580)» (così Cass. n. 15868/2002). E successivamente nell’ottica di rendere obbligatorio e non meramente facoltativo il criterio (o metodo) equitativo – in caso di riscontrata dequalificazione non accompagnata da prova di pregiudizio patrimoniale ma da indici presuntivi di danno subito -, Cass. n. 8271 del 29 aprile 2004 (est. Mazzarella) ha, incisivamente, affermato che: « In caso di accertato demansionamento professionale del lavoratore in violazione dell art. 2103 cod. civ., il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l esistenza del relativo danno in base agli elementi di fatto relativi alla durata della qualificazione e delle altre circostanze del caso concreto, potendo procedere ad una autonoma valutazione equitativa del danno, rispetto alla quale non ostano né l eventuale insuccesso di una ctu disposta al fine di quantificarlo in concreto alla luce di criteri lato sensu oggettivi, né l eventuale inidoneità e/o erroneità dei parametri risarcitori indicati dal danneggiato dovendosi, per converso, ritenere contraria a diritto un eventuale decisione di "non liquet", fondata, appunto, sull asserita inadeguatezza dei criteri indicati dall attore o sulla pretesa impossibilità di individuarne alcuno, risolvendosi tale pronuncia nella negazione di quanto, invece, già definitivamente acclarato in termini di esistenza di una condotta generatrice di danno ingiusto e di conseguente legittimità di una richiesta risarcitoria relativa ad una "certa res lesiva"».



4. Conseguenze sul regime probatorio

In buona sostanza, così suona, oramai da più di un decennio, il prevalente orientamento della S. corte sul danno alla professionalità “pura” o "soggettivamente intesa" - che si sostanzia eminentemente in "danno esistenziale", in quanto lesione del diritto costituzionale (ex art. 2 e 41 Cost.) al pieno ed effettivo spiegamento della professionalità del lavoratore nella società e nella comunità di lavoro nonché al rispetto della sua intangibilità, escludente qualsiasi forma di negazione o compressione ad opera di pratiche dequalificatorie datoriali - conseguente a violazione dell’art. 2103 c.c. e dei precetti costituzionali (artt. 1 e 2 Cost.): «Il demansionamento professionale dà luogo ad una pluralità di pregiudizi, solo in parte incidenti sulla potenzialità economica del lavoratore. Non solo viola lo specifico divieto di cui all articolo 2103 c.c., ma costituisce offesa alla dignità professionale del prestatore intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità nel contesto lavorativo (in cui si sostanzia il danno alla dignità del lavoratore, bene immateriale per eccellenza) e quindi lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, con la conseguenza che il pregiudizio conseguente incide sulla vita professionale e di relazione dell interessato, con indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche equitativa (Cass., 18 ottobre 1999, n. 11727). L affermazione di un valore superiore della professionalità, direttamente collegato ad un diritto fondamentale del lavoratore e costituente sostanzialmente un bene a carattere immateriale, in qualche modo supera ed integra la precedente affermazione che la mortificazione della professionalità del lavoratore potesse dar luogo a risarcimento solo ove venisse fornita la prova dell effettiva sussistenza di un danno patrimoniale (cfr. le sentenze 11 agosto 1998, n. 7905; 4 febbraio 1997, n. 1026 e 13 agosto 1991, n. 8835)».

Diversa è stata valutata la fattispecie del danno alla professionalità “oggettivamente intesa”, cioè il danno da demansionamento o forzata inattività implicante le connesse perdite di chances promotive interne o di miglioramento professionale nel mercato esterno, ove prevale la tesi giurisprudenziale che tali perdite vanno rigorosamente provate ex art. 2697 c.c. nella loro causalità dal demansionamento, mentre si esprime l’avviso che sarebbe anche qui sufficiente il ricorso alle presunzioni ex artt. 2727-2729 c.c., giacché è intuitivo che chi mobbizza demansionando certamente nega la promozione all’inviso quando solitamente la conferisce invece ai suoi colleghi di pari anzianità o svolgenti le stesse o similari mansioni, costituendo questo comportamento - quando statisticamente risultante ed evidenziato al magistrato come non occasionale o episodico - parimenti “prova incontestabile”, tramite un indizio preciso, certo e concordante, di discriminatorietà con finalità vessatorie cioè a dire espressivo di un uso illegittimo del potere discrezionale datoriale che in un rapporto obbligatorio soggiace all’osservanza dei principi di “correttezza e buona fede” ex artt. 1175-1375 c.c.

Per la non necessità della prova del danno (implicito o immanente) alla “professionalità pura” e/o per la sufficienza del ricorso alla prova presuntiva, si è espressa non solo Cass. 6.11.2000 n. 14443 (relegando ad opinioni superate le precedenti precitate, isolate, sentenze) ma una nutrita serie di decisioni conformi, precedenti e successive, quali: Cass. 13299/92; Cass. 11727/99, Cass. 7.7.2001, n. 9228; Cass. 23.10.2001, n. 13033; Cass. 2.11.2001, n. 13580; Cass. 2.1.2002, n. 10; Cass. 1.6.2002, n. 7967; Cass. 12.11.2002,n. 15868; Cass. 22.2.2003, n. 2763.

E anche se, irrealisticamente, la prova è stata richiesta, in due recenti decisioni (n. 6992 del 14.5.2002 e n. 8904 del 4.6.2003), si è avuto la sensibilità in entrambe di precisare che l’onere probatorio per il ricorrente risultava assolto dal ricorso alle presunzioni qualora “fornisca, sia pure a livello di semplici indizi (indizi che possono trarsi anche semplicemente dal complesso delle circostanze del caso concreto, quali la natura, l’entità e la durata del demansionamento: cfr. Cass. 14443/2000; 13580/2002; 15868/2002, cit.), la prova dei danni subiti».

Ma le più recenti Cass. 29 aprile 2004 n. 8721 (est. Mazzarella) e Cass. 27 agosto 2003 n. 12553 (est. D’Agostino) - reiterando Cass. n. 15868/2002, Cass. n. 13580/2001, Cass. n. 14443/2000 ed altre - hanno escluso nuovamente la rigida "probatio diabolica" (anteponendole il dato di comune esperienza, secondo cui dal demansionamento discende automatico degrado od obsolescenza della specifica professionalità), asserendo espressamente, quest’ultima, che: «Dalla illegittima attribuzione ad un lavoratone di mansioni inferiori rispetto a quelle assegnategli al momento dell assunzione può derivare non solo la violazione dell art. 2103 cod. civ., ma anche la violazione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli artt. 2 e 3 della Costituzione, da cui deriva il diritto dell interessato al risarcimento danno patrimoniale conseguente al pregiudizio risentito nella vita professionale e di relazione, e la cui quantificazione può avvenire in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 cod. civ., anche in mancanza di uno specifico elemento di prova da parte del danneggiato, in quanto la liquidazione può essere operata in base all apprezzamento degli elementi presuntivi acquisiti al giudizio e relativi alla natura, all entità e alla durata del demansionamento, nonché alle altre circostanze del caso concreto».

In un nostro precedente scritto osservavamo come il danno alla professionalità pura da demansionamento o danno alla professionalità soggettivamente intesa (sostanziantesi in danno psicologico da mortificazione, sofferenza da inibizione all’autorealizzazione professionale, danno all’immagine ed alla reputazione ed a beni immateriali similari, quali la dignità umana, il rispetto, ecc.) è (eminentemente) un tipico danno esistenziale – pur con una sua parziale componente patrimonialmente valutabile per quanto attiene al degrado ed all’obsolescenza della professionalità specifica – e, quindi, partecipa della stessa natura del danno (esistenziale) da “irragionevole durata del processo”; conseguentemente ritenemmo fosse del tutto pertinente l’accostamento e l’equiparazione, anche in ordine all’identità del regime probatorio, tra di esso ed il danno da “irragionevole durata del processo”. Relativamente a quest’ultimo così si sono espresse le sezioni unite della Suprema corte nella decisione n. 1339 del 26 gennaio 2004 (inedita allo stato): “«...mentre l esistenza del danno patrimoniale, derivando da circostanze esteriori e sensibili, può (e deve) formare oggetto di specifica dimostrazione, la sofferenza di un danno non patrimoniale per la lungaggine del processo, avendo natura meramente psicologica, non è suscettibile di ricevere una obiettiva dimostrazione, onde l interprete deve prendere atto che esso si verifica nella normalità dei casi, secondo l id quod plerumque accidit. Può, allora, parlarsi, a proposito del danno non patrimoniale derivante dalla violazione dell art. 6 della CEDU (nel profilo considerato dalla legge n. 89/2001, cd. legge Pinto), non di danno insito nella violazione (danno in re ipsa), ma di prova (del danno) di regola in re ipsa, nel senso che provata la sussistenza della violazione, ciò comporta, nella normalità dei casi, anche la prova che essa ha prodotto conseguenze non patrimoniali in danno della parte processuale (è normale che la anomala lunghezza della pendenza di un processo produca nella parte che vi è coinvolta un patema d animo, un ansia, una sofferenza morale che non occorre provare, sia pure attraverso elementi presuntivi. Trattasi di conseguenze non patrimoniali che possono ritenersi presenti secondo l id quod plerumque accidit, senza bisogno di alcun sostegno probatorio relativo al singolo caso). Ma tale consequenzialità, proprio perché normale e non necessaria o automatica, può trovare, nel singolo caso concreto, una positiva smentita qualora risultino circostanze che, dimostrino che quelle conseguenze non si sono verificate».Il che equivale, praticamente, ad inversione dell’onere della prova, incombente pertanto su chi sostiene non essersi realizzata (come di norma avviene) tale conseguenza pregiudizievole.

Ed ora - dopo la precitata decisione n. 10157 del 26 maggio 2004 della sezione lavoro - siamo del tutto confortati nelle nostre precedenti osservazioni, riscontrando come la stessa sezione lavoro della Cassazione abbia negato correttezza e validità all’assunto della Corte d’appello di Milano – estrinsentesi nella pretesa che, per ottenere il risarcimento del danno da dequalificazione, il lavoratore direttivo dimostrasse il pregiudizio patrimoniale subito, sia in forma di danno all’immagine che in forma di perdute occasioni esterne di lavoro di pari livello – affermando che « unica possibile forma di liquidazione del danno privo delle caratteristiche della patrimonialità è quella equitativa, sicché la ragione del ricorso a tale criterio è insita nella natura di tale danno e nella funzione del risarcimento realizzato mediante dazione di una somma di danaro che non è reintegratrice di una diminuzione patrimoniale, ma compensativa di un pregiudizio non economico (Cfr. Cass. n.n. 8827 e 8828 del 2003)». Con l’aggiunta per cui: «...la valutazione di siffatto pregiudizio, per sua natura privo delle caratteristiche della patrimonialità, non può che essere effettuata dal giudice che alla stregua di un parametro equitativo, essendo difficilmente utilizzabili parametri economici o reddituali».



5. Le “sacche” di resistenza al nuovo orientamento

Sul regime probatorio sussistono peraltro ancora minoritarie “sacche di resistenza” in seno alla stessa sezione lavoro. Per completezza d’informazione, ricordiamo come la prova viene richiesta - senza alcuna distinzione tra danno (immanente o intrinseco) alla professionalità “soggettivamente” intesa ed alla professionalità “in senso oggettivo”, correlata a perdita di chanches promotive o sul mercato esterno – da Cass. 14 maggio 2002 n. 6992 (est. Roselli) sull’assunto, temperato dal ricorso alla prova per presunzioni: «...che per questa come per qualsiasi altra specie di danno civile il risarcimento spetta quando sia provata non solo l’attività illecita ma anche l’oggettiva consistenza del pregiudizio che da essa derivi, non potendo confondersi il risarcimento con l’inflizione di una sanzione civile, o pena privata, soltanto quest’ultima conseguente automaticamente alla condotta illecita;che solo quando la sussistenza del danno sia in qualsiasi modo provata, anche per presunzioni, e tuttavia non sia dimostrabile il preciso ammontare, il giudice di merito può procedere alla valutazione equitativa ex art. 1226 cod. civ ....». Ad essa sembrerebbe conformarsi la recente inedita Cass. 28 maggio 2004 n. 10361 (di cui abbiamo appreso la sola massima).

Con un incipit singolare – giacché è notorio che il demansionamento si attualizza di per se con la dequalificazione della prestazione, non già con l’abbattimento del livello retributivo corrispondente - quanto funzionale per veicolare un messaggio “restrittivo”, si presenta poi la massima di Cass. 8 novembre 2003 n. 16792 (est. Foglia), che successivamente recupera un suo equilibrio nello svolgimento delle ulteriori argomentazioni, così esprimendosi: « Non ogni demansionamento determina un danno risarcibile ulteriore rispetto a quello costituito dal trattamento retributivo inferiore cui provvede, in funzione compensatoria tramite l’irriducibilità della retribuzione, la norma codicistica dell’art. 2103. Invero, non ogni modifica delle mansioni in senso riduttivo comporta di per sé una dequalificazione professionale, poiché questa fattispecie si connota, per sua natura, con un abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore, con una sottoutilizzazione delle sue capacità e una conseguenziale apprezzabile menomazione - non transeunte - della sua professionalità (si pensi alla dispersione o riduzione delle capacità professionali, in relazione ad un periodo di prolungato sottoutilizzo delle esperienze lavorative, particolarmente dannoso in settori ad alta tecnologia, ecc.) nonché con perdita di chance ovvero di ulteriori potenzialità occupazionali o di ulteriori possibilità di guadagno (Cass., 14.5.2002, n. 6992; Cass., 14.11.2001, n. 14199).

Trattandosi di danno ulteriore, spetta al lavoratore l onere di fornirne la prova, mentre resta al giudice di merito - le cui valutazioni, se sorrette da congrua motivazione, sono incensurabili in sede di legittimità - il compito di verificare di volta in volta se, in concreto, il suddetto danno sussiste, individuarne la specie e determinarne l ammontare, eventualmente procedendo ad una liquidazione in via equitativa. In base agli elementi di fatto ed a particolari circostanze del caso concreto, la prova del danno può essere anche presuntiva (in questo senso, cfr. Cass., 2.11.2001, n. 13580)» .

Si sottolinea come – a nostro avviso - la legittimazione del ricorso alla prova presuntiva non è un’agevolazione di favor operarii ma si impone di necessità (più che sufficiente risultando, allo scopo di percepire il degrado da dequalificazione, il comune buon senso del magistrato ed il fatto notorio ex art. 115 c.p.c.). Infatti se si ha un minimo di esperienza di vita lavorativa e aziendale ci si rende immediatamente conto che non si può pretendere che il lavoratore certifichi al giudice adito il danno alla “professionalità”... con la presentazione di un attestato di “obsolescenza” da demansionamento, eventualmente rilasciatogli da un’agenzia di lavoro temporaneo ovvero comprovi il corrispondente danno all’immagine ed alla reputazione professionale tramite la presentazione di un attestato rilasciato da una società di ricerche di mercato o di privata investigazione.

Va pertanto condiviso quanto lucidamente asserì a suo tempo Pret. Milano 21 gennaio 1992, (in D&L, 1992,417):«...l impossibilità di svolgere il lavoro per il quale si è idonei, comporta un decremento o, quanto meno, un mancato incremento della professionalità, intesa come l insieme delle conoscenze teoriche e delle capacità pratiche che si acquisiscono da parte del lavoratore con il concreto esercizio della sua attività lavorativa. La tesi (della convenuta società, n.d.r.) circa l inesistenza di un danno, nel caso specifico, poiché il ricorrente avrebbe potuto aggiornarsi nelle materie legali anche in mancanza di attività lavorativa, leggendo e studiando le pubblicazioni del settore...non può essere condivisa. E infatti la professionalità di un lavoratore intellettuale dipende ed è costituita non solo dalle nozioni teoriche ma dalle capacità applicative delle stesse nella prassi lavorativa; essa si forma nel rapporto con le esigenze tecniche poste dalla pratica quotidiana e non certo ipotizzabili in termini astratti e teorici e viene stimolata ed incrementata dall attività di soluzione delle evenienze che di volta in volta si pongono. Consegue a ciò che l assenza del lavoro priva il lavoratore della possibilità di utilizzare e valorizzare la sua professionalità, determinandone l impoverimento; ed, al tempo stesso, ne impedisce la crescita. In tale prospettazione è evidente che la forzata inattività dal lavoro determina per il lavoratore un pregiudizio al suo bagaglio professionale, che si traduce in un danno patrimonialmente valutabile».

Riteniamo che le posizioni che traguardano ancora la conservazione di un “diabolico onere probatorio” sul lavoratore per il pregiudizio del danno da dequalificazione professionale, siano una coda destinata ad esaurirsi – piuttosto che la fiamma di un fuoco destinato ad alimentarsi – specie ora dopodiché si è, nella stessa sezione lavoro, imboccata la corretta strada della riconducibilità del danno da mortificazione, sofferenza interiore, perdita d’immagine ed eterostima nonchè immmiserimento professionale (sovente accompagnato da danno biologico), nell’alveo del danno “non patrimoniale”, di natura esistenziale ed immateriale, intrinsecamente indimostrabile e non documentabile sub specie di pregiudizio patrimoniale.

Mario Meucci

Roma, 15 giugno 2004


 
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